martedì 31 luglio 2007

Ho voglia di te

Ho voglia di prepararti un bagno e strofinarti per bene.
Accarezzandoti energicamente ti leverei l'imbarazzo che pende dal tuo interno.
Ti lascerei aprire con calma immersa nel nettare del dio Bacco, ad inebriarti di ancestrali odori provenienti da terre lontane .
E allora, solo allora assaporerei i tuoi umori e affonderei i denti sulla tua carne per saziare la mia fame di te...

...CHE VOGLIA DI IMPEPATA DI COZZE !!

lunedì 30 luglio 2007

Per merenda

Quanche anno fa, tra le Macine del Mulino Bianco e una tazza di thè, si faceva merenda con
LORO!


Adesso provate anche voi a continuare a lavorare senza cantincchiarla! Camòn... lez muvenon nau! ... muvenon nau...

venerdì 27 luglio 2007

Ho visto cose che voi blogger non potete nemmeno immaginare...

In quest'era di Web 2.0, blog, social network, iPhone, iPod, iChefammchem'èvenuta, il computer sembra esserci da sempre. La musica è solo mp3. I film sono in divX. Le telefonate in Skype.
Ma non è sempre stato così. La metà dei ragazzini che conosco non credono che una volta non c'erano i browser. L'altra metà sono troppo stupidi. Anch'io alla loro età non credevo che la televisione una volta non esistesse, anche se i miei primi ricordi televisivi sono in bianco e nero. Mi ricordo i gettoni che mamma mi dava prima di andare a scuola. I numeri li tenevi a memoria. Era impressionante la quantità di numeri telefonici che riuscivi a memorizzare. Adesso non mi ricordo neanche quello di casa mia. Tasto verde e pronto?.
Già, con questi sarchiaponi, affari cinesi, scatole magiche o qualsiasi altro epìteto vi venga in mente per descrivere il computer, ci lavoro ormai da tanto tempo, troppo tempo. Quando ho cominciato ad avvicinarmi a questi strani cosi luccicanti, l'informatica era una materia che si studiava solo nelle Università. Avevo dodici anni. Il C64 l'avevo trovato per strada, buttato perchè era rotto. Io con quel C64 (aggiustato) ho iniziato a programmare. Lo connettevo alla televisione. Facevo strane saldature ai connettori e facevo accendere i led saldati su una basetta solo con la modifica di qualche riga di codice. Mi affascinava creare dal nulla. I giochi erano su cassetta e per giocare dovevi aspettare il caricamento sequenziale. Il contagiri ti indicava quanto rimaneva. Mentre lui caricava, io giocavo a pallone. Non sono mai riuscito a far capire a mia nonna cosa volesse dire studiare da informatico. Essere un programmatore. Per lei ero una delusione perchè non avevo fatto lo scientifico e avevo preferito imparare un mestiere. Ero più o meno un geometra o un falegname. La mia stanza era più che altro un laboratorio e gli schizzi di stagno per pulire la punta del saldatore, costellavano le pareti. I modem US Robotics in america viaggiavano già a 14.400bps. Gli stessi modem in Italia andavano al massimo a 9600 bps (baud per second). C'erano due problemi principali che ostacolavano l'adozione di quegli apparecchi sofisticatissimi: il costo proibitivo e il regolamento della SIP (perchè allora non c'era la Telecom) che impediva di connettere apparecchiature non omologate alla rete telefonica e il modem non lo era... Così ti accontentavi di costruirtelo da solo (contravvenendo ovviamente al regolamento SIP) il tuo accoppiatore telefonico che al massimo andava a 600/2400bps perchè la linea di casa era già vecchia allora. L'occorrente un pò lo compravi (sacrificando l'acquisto dei fumetti), un pò lo fregavi nel laboratorio della scuola. Disegnavi la scheda con il pennarello a rame. Poi l'acido. Le saldature. Qualche diodo qui. Qualche resistenza la. Qui ci piazzo il microchip!. Ti sentivi il costruttore pazzo di Jeeg il robbodacciaio. Facevi una strana connessione dentro il telefono grigio e papà si incazzava perchè gli stavi rompendo il telefono. Componevi il numero sulla ghiera del telefono.
Trrr. Tatatata. Trr. Tatatata.
Internet era agli albori, un piccolo neonato che parlava per lo più americano e chiamare in america costava troppo. Allora non c'erano i provider, c'erano solo le bbs (Bulletin Board System) e si chiamavano direttamente, come comporre il numero di zia al mare. Poi sentivi quei fischi. Erano musica per le tue orecchie. Il SysOp se ti conosceva ti faceva entrare. Gente pazza che praticamente non dormiva mai. Incollati ai loro monitor monocromatici o, per i più fortunati, a fosfori verdi che a me sono sempre stati più simpatici. Si, era bello. Poi venne il Dos, gli Ibm compatibili e tutto non fu più lo stesso. I dischetti da 5¼ e i modernissimi da 3½ che riuscivano a contenere ben 720 kb! Il mio telefonino aziendale ha una memoria più piccola del mio unghio e contiene 1Gb. Il macellaio ti manda una mail per dirti di andare a ritirare la carne e l'ottico ti manda un sms. Mio padre non sa ancora programmare il videoregistratore ma sa spedire un'e-mail. Le distanze non ci sono più. Adesso ci sono i blog, flikr, Second Life. In vacanza non mandi una cartolina: aggiorni il tuo blog. Per organizzare una cena mandi un'email. Per sentire un amico aspetti che si connetta con Msn. Strano mondo.
Buon week-end Amici.

martedì 24 luglio 2007

Post vacanziero

Visto il clima vacanziero (ma soprattutto la poca voglia di lavorare), ecco le dieci frasi da evitare se si intende intavolare una gradevole conversazione con la vicina di ombrellone (e mantenere integri i vostri gioielli). Alcuni potrebbero ritenere il contenuto del presente post offensivo e lesivo nei confronti delle donne e delle teorie femministe in generale: fatti vostri.

1. Ehi... ma quanto paghi di ICI per quelle tette?
2. Non c'è che dire: in costume, lei è molto più bella della mia pecora.
3. Mi scusi, ma sono sicuro di averla già vista. Non era lei la co-protagonista dell'ultimo film di Rocco Siffredi?
4. Buongiorno. Sono un tesserato della FIGB (Federazione Italiana Giuoco Bukkake). Io e la mia squadra partiremo a breve per le olimpiadi e ci chiedevamo se le farebbe piacere allenarsi con noi per il bene della nazionale.
5. Salve, vorrei effettuare alcuni test sugli stati di evoluzione della materia organica dallo stato di quiete allo stato di eccitazione. Potrebbe darmi una mano? [alle bionde la spiego con calma dopo]
6. Tra questa infinità s'annega il pensier mio: posso naufragar nel suo mare? [scusami Giacomo]
7. Signorina, con quelle tette lei mette in discussione le teorie gravitazionali di Newton.
8. Signorina, il suo costume è falso. Se lo tolga immediatamente o sarò costretto a multarla.
9. Signorina, che ne direbbe di vedere le stelle con il mio telescopio?
10. Uffa! Che noia... Signorina, le andrebbe di giocare a scopa senza carte?

venerdì 20 luglio 2007

Ipse dixit cinematografico

Questa discussione contiene uno spoiler sul film. Se non l'avete ancora visto (e mi sembra difficile trovare un'altra persona che non lo abbia ancora fatto) fermatevi qui!

Alla macchinetta del caffé
Mastermax - Allora? Cosa hai fatto ieri sera?
La colleghina - Ho visto un DVD. I soliti sospetti. Non l'avevo mai visto.
MM - Bhé... meglio tardi che mai. E' di almeno dieci anni fa! Allora? Ti è piaciuto?
LC - Sì... non ho capito però perchè finisce il quel modo...
MM - Uhm?? Cioè?
LC - Con tutte quelle inquadrature sulla bacheca, sulla tazza e poi lo zoppo non cammina più zoppo ma cammina bene...
MM - Ma come? Perché? E' proprio grazie a quell inquadrature che capisci tutto!!
LC - Ma capisci cosa?
MM - Come cosa? Che lo zoppo era Kaiser Sose! Che si era inventato tutto lì, al momento: la cicciona di colore, l'avvocato, tutto! kobayashi non esisteva: era solo la marca della tazza di porcellana... Ecco perchè quelle inquadrature!
LC - Ahhh... ecco perché poi il poliziotto scappa a cercarlo... quindi è stato lui ad ucciderli tutti!
MM - Ci sei arrivata da sola? Si!.. Ma... sei sicura di averlo visto e di non esserti appisolata?
LC - nono... l'ho visto.
MM - Uhm... però!... Magari la prossima scegli un film un pò meno impegnativo...
LC - Ad esempio?
MM - Che ne so... la carica dei 101!

DONNE: VI ADORO!!!

giovedì 19 luglio 2007

L'approdo

Appunti di viaggio trascritti a matita sul moleskin rosso, unico e silenzioso compagno che ho voglia di portare con me. I neuroni si contendono, lacerandomi, l'unico pensiero che non mi lascia vivere, respirare. Cani famelici, rabbiosi, ululano il proprio dolore riunchiusi rodendo sempre lo stesso osso senza scalfirlo mai.
Navigo a vista.
Un'isola si staglia all'orizzonte. Dirigo la bussola verso l'approdo.
Scendo affondando i piedi sulla sabbia.
Finalmente un pò di pace.
Mi disseto alla fonte del sapere e al contempo sazio la muta di cani che, finalmente satolli, si distendono al sole. Il pensiero si nasconde, si affievolisce. Ricomincio a respirare.

mercoledì 18 luglio 2007

E saranno cinque...

Sabato mattina farò il mio quinto tatuaggio. E lo faremo assieme io e la mia dolce compagna di vita (termine che apprezzo molto più dell'ormai inflazionato moglie).
Stesso giorno, stesso simbolo, stesso posto.
Quinto tatuaggio, quarta vita. Le immagini corrono più veloci di me.
Mi sembra passato un secolo dal primo, fatto a diciotto anni in un garage.

martedì 17 luglio 2007

Le tre vite di Ivàn.

E’ strano come, adesso, tutto sembri sereno da quassù, tutto. Il coniglio, intento a scolpire con i denti il bastoncino di legno attaccato alla gabbia. Il quadro con i gatti stilizzati attaccato sopra il divano, che mi ricorda molto le composizioni astratte che si vedono d’estate sull’asfalto delle autostrade. Perfino quel tavolino per il telefono, posto all’angolo tra i due divani, per il quale ho sempre avvertito un profondo sentimento di odio.
L’aveva comprato l’anno scorso mia moglie da un rigattiere sulla Darsena del Naviglio, nel tratto in cui attraversa il centro della città. Da oramai qualche anno a questa parte la cara donna ogni ultima domenica del mese, è solita strapparmi dalle amorevoli cure del mio amato divano per trascinarmi alla fiera che viene puntualmente allestita in quel luogo stretto e ameno da rigattieri, antiquari, furfanti, pittori squattrinati, artigiani, borsaioli e chiunque altro abbia qualcosa di inutile da vendere alle centinaia di polli che puntualmente vi si recano per farsi spennare, allegramente convinti di trovare, tra la miriade di cianfrusaglie esposte, degli inestimabili pezzi da collezione.
Sui banchi vi si può trovare di tutto: dalle vasche in ghisa dell’ottocento ai telefoni neri di bachelite degli anni settanta, dai souvenir di Murano - memori di fortunate o meno lune di miele - alle medaglie al valore dell’ultimo conflitto mondiale. Dalle foto ormai ingiallite di arcaici amanti ad interi annali della domenica del corriere, con l’illustrazione di Molino o Beltrame dell’evento della settimana. Ma soprattutto mobili: di ogni sorta, foggia o stile. Antichi (un modo gentile per dire vecchi) e solo da restaurare leggermente (ovvero così tarlati da essere buoni solo per attizzare il camino). Insomma, se cercate una di quelle cose per le quali poco tempo prima avete pagato profumatamente qualcuno farvi sgomberare la cantina, lì la troverete sicuramente.
Mia moglie ha una procedura ormai consolidata per trattare un affare, come dice lei.
Procede con disinvoltura tra le bancarelle, fissando tutto con uno sguardo perso nel nulla misto a disprezzo che sembra dire a chiunque lo incroci “Guarda, caro mio, che io sono una grande intenditrice, cosa credi? Ho comprato tutti i fascicoli dell’enciclopedia dell’antiquariato in edicola, per cui non ci provare nemmeno a fregarmi!”.
Non appena la sua cornea si posa su qualcosa che anche solo vagamente, possa ricordare una delle foto viste su una rivista delle quali ha riempito tutta la casa, per prima cosa passa subito avanti. Poi dopo circa cinque, massimo sei minuti torna indietro per dare una seconda occhiata veloce sempre senza soffermarsi, ancora. Dopo un po’ ritorna e questa volta si sofferma, purtroppo.
Mentre il venditore aveva capito già al suo secondo passaggio di averle venduto quel pezzo e stava già calcolando come poter spendere il ricavato - Uhm, ci pago la rata del mutuo della villa al mare o le bollette della casa in montagna? - lei scruta con attenzione, ma sempre con fare disinteressato, l’oggetto del contendere: rigirandolo per le mani, avvicinandosi, inchinandosi, scuotendolo. Alla fine sentenzia: “Scusi... e quanto vorrebbe per questo?” Come per dire “Ringraziami brutto stronzo che forse e dico forse ti libero di questo peso inutile!” pensando in realtà tra sè e sè “Urca che fortuna! Ma come si fa a vendere un pezzo inestimabile come questo? E’ sicuramente un grande affare!.” Peccato che mia moglie come attrice abbia sempre fatto cagare e nella maggior parte dei casi la piccola quantità di materia grigia che le è stata amorevolmente donata dal Padre Eterno raschiando il fondo del barile (“Ehi… Mariaaaa…Mariaaaaaa… per favore mi porti altro cervello che mi è finito?... Papàaaaa… Si deve ordinareeee… chiamo subito il fornitoreeee… E adesso come faccio?... aspetta forse… vabè è poco ma dovrebbe bastare… anzi… la faccio bionda con gli occhi azzurri e così nessuno se ne accorgerà...!) la porti ad invertire le intonazioni dei due pensieri, per cui se prima il truffante aveva qualche minimo dubbio sulla possibilità di non riuscire a portare a termine la vendita, la sua voce eccitata spazza via qualsiasi brutto pensiero dalla testa di quel povero miliardario.
Io resto in disparte, a godermi lo spettacolo.
La mia funzione si palesa solo al termine delle contrattazioni. Sono il povero Cristo che deve trascinare il prezioso reperto - il cui peso va esponenzialmente ad aumentare al diminuire delle mie risorse fisiche - per tutto il resto della fiera. Una moderna via crucis che si ripete puntualmente ogni maledettissima ultima domenica del mese, senza alcuna Maddalena a tergermi il sudore ma solo centurioni pronti a frustarmi.
Quando acquistò il beneamato e preziosissimo tavolino tripode, la deliziosa consorte ha pure contrattato al rialzo per riuscire a strapparlo ad un altro acquirente interessato, la troia!.
Ora, come si fa, dico io, a pagare duecentocinquanta euro un tavolino che ha solo tre piedi, traballa e cade per terra regolarmente ogni volta che vado a rispondere al telefono?
A parte che è in stile Giovanni XVI – Mi risponde lei
Ma non si chiamava Luigi? - penso io in rigoroso silenzio
e poi ovviamente non ti sei neanche accorto che fa pendant con il lampadario! Stupido! – Mi fa gentilmente notare lei
Ma in fondo, tu, che ne capisci di queste cose? Cosa ne vuoi capire! – rimbrotta lei.
Bhè certo, l’esperta sei tu! – accenno io sottovoce - e adesso levati và... che devo passare l’aspirapolvere – chiude lei.
Ovvio, penso io, c’è il gran premio e mancano due giri dal termine, quale migliore occasione per accendere quello strumento infernale inventato incrociando il motore di un boing 747 con un mantice per il camino al solo scopo di incentivare la vendita di cornetti acustici per sordi. Comunque, io non capirò molto né di antiquariato né di pendant è vero, ma secondo me il rigattiere e l’altro acquirente erano compari. Come nel gioco delle tre carte che fanno alla Stazione Centrale. Lo so. Ne sono certo. Me li vedo: noi due che ci allontaniamo con il tavolino monco sotto braccio e loro due che scaricano dal camioncino pieno di tavolini a tre piedi un altro tavolino disabile da affibbiare ad un’altra intenditrice, ridendo alle nostre spalle come pazzi mentre sventolano le banconote uscite dal mio portafoglio per vantarsi agli occhi degli altri furfanti!
Ma sì, che se li godano. Non mi importa più ormai perché tutto è sereno da qui, tutto.
E’ notte. Notte tarda. Un’altra notte come tante. Che silenzio. Che pace. Tutti dormono, sognano, fanno l’amore, scaricano lo sciacquone del cesso. E’ il vicino. Va sempre a pisciare a quest’ora. Ci puoi rimettere l’orologio. Ha la vescica collegata con l’Istituto Galileo Ferraris di Torino, quello dell’orologione della RAI e dell’uccellino della radio. Prima non ci avrei fatto caso. Non facevo caso a nulla prima. Guardavo senza vedere e sentivo senza ascoltare. Sopravvivevo e basta. Come quando ero militare, sul gommone, in attesa di effettuare lo sbarco a Mogadiscio, con la faccia dipinta di pasta verde – l’unica cosa che mi piaceva fare – il fucile automatico tra le gambe e lo zaino sulle spalle contenente cose che non ho mai usato ma che dovevo portare chissà per quale ragione. Perché così era stato deciso, da altri.
Il tenente, parlava, parlava, parlava…
Impartiva gli ordini con un’espressione seria e compita che lasciava trapelare quanto in realtà si stesse cagando addosso. Attorno a me, i miei compagni, lo ascoltavano con la medesima espressione. Io lo fissavo con uno sguardo interessato (non penso avessi la stessa espressione degli altri però) senza ascoltare nemmeno una parola di quello che diceva. Ero attirato solo dai colori che assumeva la sua faccia alla luce rossa della lampada della camera di sbarco. Ricordava i giochi di luce che si formavano dentro il caleidoscopio che papà mi comprò a sei anni alla Libreria del Sole. Dopo essermi congedato ho ripensato spesso a quella notte: chissà che fine ha fatto quel caleidoscopio. Penso che non lo saprò mai. Chissà perché avevo scelto quella vita. Forse perché non dovevo mai decidere, niente. Tutto era stato previsto e ancora per un po’ potevo tenere la testa sotto la sabbia, potevo prolungare la mia adolescenza in preda alla mia splendida sindrome di Peter Pan. E’ solo quando ti ritrovi a decidere di decidere che scopri di essere cresciuto.
A me è capitato quasi per caso. In un afoso pomeriggio d’estate, andando al garage per prendere la moto e iniziare a girare senza meta per la città. Giusto per non pensare alle brutte cose che avevo appena detto a quel tenero bocciolo di amorphophallus titanum(1) che ho scelto per moglie.
Era lì in agguato, il bastardo!
- Signoreeeeeee!
- Scusi Signoreeeeee!
Non mi voltai nemmeno, mica sono un Signore, io.
Signore sono solo le persone come un padre o un nonno. Quelle persone geneticamente modificate, nate già con i baffi, un lavoro e sposati con mamma o con nonna, a seconda dell’età che hanno deciso di affibbiargli in laboratorio. Continuai a camminare pensando ai cazzi miei come se nulla fosse, quando il piccolo moccioso ripeté più forte:
- SIGNOREEEEEEE!
- Ehiiii… LEIIII… SIGNOREEEEEEE!

Non so perché ma cominciai ad avere il presentimento che, forse, il tenero bricconcello ce l’aveva proprio con me, anche perché di domenica pomeriggio, ad agosto, per la strada, c’eravamo solo io e quei quattro ragazzini dall’altra parte del marciapiede e oltretutto il pallone era tra i miei piedi!
- Signoreeeeeeee!
- Può tirarci il pallone, Per favoreeeee?

E’ quello il momento in cui realizzai. Il momento fatidico in cui guardandomi riflesso nella vetrina a specchio della banca all’angolo presi coscienza che quell’omino grassoccio e brizzolato … ero io!
Tirai quel pallone a quei quattro piccoli bastardi – immaginando quanto sarebbe stato bello poterglielo tagliare sotto gli occhi – ricordando teneramente quando ero IO a giocare per strada alle due del pomeriggio sotto il sole cocente di una Palermo desolata, utilizzando per porta la saracinesca del garage accanto al palazzo. Le saracinesche dei garage sono perfette per giocare a pallone. A volte penso che dovrebbe adottarle pure la FIFA.
Essa ha la duplice funzionalità di:
a) Essere delle dimensioni regolamentari: né troppo piccola da non poter fare nemmeno un goal, né troppo grande da permetterne di farne troppi.
b) segnalare rumorosamente e senza possibilità di appello ciascuna rete che viene segnata.
Altro che Biscardi, processi e moviola!
Il boato inconfondibile prodotto ad ogni tiro non lascia possibilità di appello neppure al più grande principe del foro.
SBRAAAANNNNGGHHH!!!
GOOOOOOOOLLLL!!!

Naturalmente, il fatto che, magari, quel tonfo sordo a cadenza medio-fissa potesse forse disturbare il sonno pomeridiano dei poveri padri di famiglia tornati a casa dopo quattro o cinque infinite ore di estenuante lavoro passato a leggere la Gazzetta dello Sport al comune, non ci sfiorava minimamente.
E invece adesso sono io a non sopportare quei tonfi sordi provenienti dal fondo della strada e le grida esultanti dei mocciosi mentre sto dormendo beatamente sul mio divano – che non farà pendant con un cazzo ma è solo comodo – in una delle rare domeniche pomeriggio che mi viene concesso farlo.
E’ per questo che mi piace la notte. Di notte dormono tutti.
Quei marmocchi che chiamandomi Signore mi hanno fatto più male di quando scoprii che Babbo Natale non esiste, il vicino piscione e la portinaia cesso. Pure quel figlio di puttana del capoufficio, che mi ha negato l’aumento perché “devi capire che non sei più competitivo sul mercato, in un periodo poi di congettura economica particolare come quello in cui viviamo al momento, non potrei giustificarlo davanti la direzione!.
Dorme tutta la generica, mediocre e fetida umanità che mi circonda ogni mattina in metrò. Dorme persino mia moglie, che ho amato e tutto sommato, amo ancora.
Quella petulante e pignola donnetta che condivide il mio letto da anni rubandomi le coperte d’inverno e che mi sveglia di sabato alle sette del mattino dicendomi teneramente con la voce di un sergente istruttore:
Alzati! devo fare il bucato e devo cambiare le lenzuola! Poi dobbiamo andare a fare la spesa e dobbiamo andare a cercare quella credenza per la cucina! E comunque, mica vorrai dormire tutto il giorno no?
Nooooo – rispondo io – perché mai dovrei voler dormire tutto il giorno? Perché dovrei riposarmi?
Dorme pure il direttore di banca, che si scomoda a chiamarmi sul cellulare mentre sono in riunione per comunicarmi laconicamente:
Mi spiace (eh, come no?) il suo conto è in rosso da troppo tempo e quindi occorre trovare un’immediata soluzione o sarò costretto ad adire alle autorità competenti”.
Certo! Mica va a spendere soldi in tavolini senza gambe, lui.
Tutti dormono, Tutti, tranne me.
Ma tutto ciò non ha più importanza adesso, perché tutto è sereno da quassù, tutto.
Adesso, che ho finalmente capito di essere grande e di poter decidere della mia vita. Ora che ho finalmente cominciato a vivere, ad ascoltare, a notare i piccoli particolari.
Adesso, che mia moglie è andata a dormire e il maledetto tavolino menomato del telefono è andato accidentalmente a fuoco, come tutto il resto dell’appartamento, a causa della tanica di benzina che gli ho rovesciato sopra e del fiammifero acceso che mi è inavvertitamente caduto prima di chiudere la porta.
Adesso che la corda che avvolge il mio collo sta finalmente cominciando a stringere.
--
[1] L’ A. titanum, un’aracea che può raggiungere i 2,30 metri di altezza, è stata scoperta nel 1878 a Sumatra dal botanico fiorentino Odoardo Beccari. E’ alto tre metri, cresce a una velocità di 10 centimetri al giorno e pesa 75 chilogrammi. E’ altresì nota per il caratteristico odore di carne in decomposizione e la forma fallica del suo fiore, da cui deriva il nome.

venerdì 13 luglio 2007

Per fortuna sono refrattario alle dipendenze...

Ho appena fatto il test test di mingle2 che in questi giorni sta girando per i bloggers, per misurare la loro dipendenza dalla blogosfera. Il risultato? Bhe lo vedete da voi. Adesso scusatemi perchè devo andare a fumare. Cavolo! E' già finita la bottiglia di gin!


giovedì 12 luglio 2007

Autolesionismo o semplice incoscienza?

Mi piace fumare.
Lo so è da idioti. Da stupidi. Ma mi piace fumare.
Mi piace tagliar via la parte superiore del rivestimento di plastica, seguendo la sottile striscia animata dal filo dorato, da un nuovo pacchetto.
Mi piace lasciare inalterato il rivestimento sottostante. Forzare l'apertura e staccare delicatamente la carta argentata per scoprirne il contenuto.
Mi piace vederle lì: tutte il fila e ordinate in attesa della loro esecuzione.
Mi piace l'odore che emanano appena aperte. Cioccolato.
Mi piace fumare appollaiato sul rivestimento in alluminio del condizionatore sul terrazzo del mio ufficio.
Una boccata, un pensiero.
Mi piace lasciarmi cullare dai pomeridiani raggi di sole di questa bella giornata di luglio milanese.
Un bambino che piange in lontananza. Una donna innaffia le piante. Un vecchietto si gode il passaggio delle macchine dal suo balcone seduto su una sedia di paglia.
Una boccata, un pensiero.
Mi piace fumare quando mi permette di vedere cose che altrimenti non avrei notato.
Mi piace fumare davanti al computer, mentre scrivo.
Mi piace fumare davanti al mare. All'aperto. Seduto al tavolo di un ristorante in attesa del primo. Mentre sorseggio un bicchiere di vino bianco ghiacciato.
Mi piace fumare dopo il caffé.
Mi piace fumare mentre aspetto il tram, che arriva subito dopo averne accesa una.
Mi piace fumare all'uscita dall'aeroporto dopo un lungo volo.
Una boccata, un pensiero.
Mi piaceva mettere il pacchetto di Marlboro nella fascia dell'elmetto o dentro la tasca della mimetica posta sul braccio destro.
Mi piaceva fumare la sera, sul ponte della nave. Ripararla dal vento e dagli spruzzi con la mano.
Mi piaceva accendere una sigaretta dopo una missione.
Mi piaceva fumare mentre mi medicavano le ferite. Faceva duro. Faceva stupido. Voleva dire solo essere ancora vivo.
Una boccata, un pensiero.
Odio fumare quando lo faccio solo per cercare di calmarmi.
Odio fumare al chiuso. La puzza delle sigarette in un locale. L'odore dei vestiti impregnati di nicotina.
Odio la gente che fuma al mare e butta i mozziconi sulla spiaggia (io ho sempre il mio posacenere portatile fatto con il contenitore in metallo delle mentine).
Odio la gente che mi dice di smettere.
Una boccata, un pensiero.
Mi odio quando guardo gli occhi incuriositi di mio figlio da dietro il vetro, quando mi vede fumare sul balcone.
Mi odio quando tossisco la mattina, appena alzato.
Dovrei smettere per me. Dovrei farlo per mio figlio. Dovrei. Ma non voglio.
Una boccata. L'ultima in attesa della prossima.
Addio cara stronzissima amica.

P.S. Fumare nuoce gravemente alla salute. Gli idioti pure.

lunedì 9 luglio 2007

Pezzi di casa: la rosticceria

Per solidarietà tra connazionali all'estero come me, pubblico di seguito la mia ricetta per i veri pezzi di rosticceria alla palermitana. Dico veri per tutti coloro i quali dicono arancinE (e non l'odiatissimo arancinI), per tutti coloro i quali conoscono il gusto di una ravazzata alle 4 del mattino. Apprezzano l'acquetta prodotta dalla mozzarella dentro un calzone appena sfornato. Il gusto di una pizzetta alla pausa delle 11. Per tutti coloro i quali hanno la voglia di placare l'incontrollabile spinno che ti assale ogni tanto e ovviamente per tutti coloro i quali si vorranno cimentare con questo ineguagliabile pezzo della storia gastronomica palermitana.

Pezzi di rosticceria

Ingredienti per l’impasto:
1 kg farina (500 g 00 e 500 g Manitoba)
100 g zucchero
100 g strutto
30/35 g sale
40/50 g lievito di birra
400/430 g acqua (dipende da quanto è umida la farina)

Per spennellare:
2 tuorli d’uovo e poco latte mescolati assieme.
Semi di sesamo

Tempo di preparazione: 1 ora circa più la lievitazione.

Procedimento



Sciogliere il lievito in 50g di acqua tiepida con 2 cucchiaini di zucchero (circa 30 gr)
Disporre le farine sulla spianatoia a fontana molto larga. Inserire al centro lo strutto, lo zucchero rimanente, il sale (un cucchiaio da tavola circa) e metà dell’acqua.
Impastare il composto effettuando un movimento circolare con le mani, facendo in modo che il composto recuperi la farina dai bordi, quindi aggiungere il lievito in modo da non farlo incontrare con il sale perché lo ucciderebbe senza far lievirare nulla.
Piano piano aggiungete il resto il resto dell’acqua o altra farina qualora dovesse essere troppo colloso. Continuare ad impastare fino a quando il composto non risulterà liscio, compatto e morbido (le mani si devono pulire continuando a lavorare). Se dovesse risultare troppo umido, aggiungere altra farina spolverandola sulla spianatoia. Formare una palla con il composto e lasciare riposare il per circa 2 ore in luogo caldo e asciutto.
Al termine della prima fase di lievitazione, il composto dovrebbe essere cresciuto più del doppio. Tirate fuori l’impasto dalla terrina, rimettetelo sulla spianatoia e rimpastatelo per bene. Ponete a lievitare per altre 2 ore. Al termine si passerà alla fase di costruzione dei pezzi.


Per i calzoni:
Formare dei dischi di circa 10-14 cm di diametro. Porre al centro il preparato caseario per pizza (tipo pizzottella) avvolta da due o più fette di prosciutto cotto. Chiudere formando una mezzaluna e sigillare per bene i bordi con il latte. Eventualmente rifilare nuovamente con il coppa pasta la semiluna per chiudere definitivamente i bordi.

Per i rollò:
Arrotolare con le mani delle strisce di circa 1-2 cm di diametro e 15 cm di lunghezza e semplicemente avvolgerli a spirale sul wurstel.
Per le ravazzate:
Prepararsi per tempo un ragù alla bolognese con piselli. Il composto una volta raffreddato deve risultare ben sodo, per cui occorrerà farlo asciugare molto facendo attenzione a non bruciarlo.
Creare 2 dischi del diametro di circa 10-14 cm. Porre al centro del primo disco del ragù, (formando una specie di montagnetta al centro). Porre il secondo disco per richiudere il panino facendo attenzione a sigillare bene i bordi con l’uovo e il latte. Formate una striscia molto sottile e disponetela sulla sommità come una specie di cerchietto.


Per le pizzette:
Formare dei dischi di circa 15 cm e disporre al centro il pelato con l’origano e il sale, la mozzarella tagliata a cubetti, il prosciutto.


Man mano che terminate le preparazioni, inserite i pezzi all’interno delle teglie, distanziandoli per bene, in modo che abbiano lo spazio di aumentare dopo il riposo post preparazione e la cottura. Lasciare riposare i pezzi per circa ½ ora.

Prima di infornare spennellare abbondantemente la superficie dei pezzi con l’uovo e il latte e spolverare la superficie (tranne ovviamente le pizzette) con del sesamo (o cimino) e ultimare le preparazioni come segue.
Per i calzoni:
Posizionare sul lato un ½ cucchiaio di pomodoro pelato.
Per le ravazzate:Inserire al centro della corona formata dal cordolo di pasta un cucchiaio di ragù, compattandone bene la superficie con il dorso.




Infornare i pezzi in forno ventilato preriscaldato a 200-220°C per 15-20 minuti circa. Se avete intenzione di sfornare grosse quantità, ricordate che è meglio infornare una teglia alla volta e comporre teglie di pezzi uguali o simili per cottura (esempio i calzoni con le pizzette o i rollò e le ravazzate da sole). Inoltre ricordate che la pasta della rosticceria tende a indurirsi molto velocemente per cui non effettuate la preparazione con troppo anticipo.





Una volta sfornati i pezzi, la crosta risulterà dura, quasi troppo croccante. Non allarmatevi e date il tempo al pezzo di riposare. Dopo circa 5-10 minuti saranno soffici e vellutati. Per mantenere più a lungo la morbidezza potete infilare i pezzi ancora caldi all’interno dei sacchetti per congelare o avvolgerli con della carta oleata.
Buon appetito!
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P.S. Visto il continuo accesso a questa ricetta da parte della blogosfera, chiederei a tutti coloro i quali decidono di prelevarla e sperimentarla di lasciare almeno un commento.

venerdì 6 luglio 2007

Senza titolo - 4/4

[la prima parte]
[la seconda parte]
[la terza parte]

Stanco e stremato dall’ennesima notte insonne, Andrea spense la sigaretta nel posacenere e si adagiò sul divano, addormentandosi di lì a poco. Sognò di essere nella stessa camera d’albergo nella quale aveva visto tante volte il suo protagonista e di vederlo lì, ancora vivo. Di spalle. Lo osservò posare la sigaretta sul posacenere guardando la scia di fumo grigio che si ergeva verso il tetto. Lo vide inebriarsi della musica che leggera inondava la stanza, sereno. Lo guardò posizionare la pistola sotto il mento. Osservò con cura il suo corpo muoversi sotto l’onda d’urto dello sparo, come un ramo mosso dal vento impetuoso di settembre, andando ad adagiarsi esanime sulla scrivania, con la pistola ancora fumante nella mano sinistra. Vide quella frase lampeggiare allegra sul monitor del portatile. I quadri imbrattati. Il sangue che colava sulla moquette, dopo aver colorato per bene le brochure dell’Hotel. Andrea si svegliò di soprassalto. Non sapeva cosa fare. Come reagire. Solo una cosa gli era certa. Aveva finalmente svelato l’oscuro disegno che la vita aveva dipinto per lui. L’invito era stato consegnato e lui lo aveva accettato oramai da troppo tempo perché potesse sottrarsi.
Cosa fare si domandò. Scappare forse? Chiudere lì la sua carriera di scrittore e tornare al nido chiedendo scusa?
No. La sua carriera era iniziata con un sogno e doveva finire con un sogno.
No. Non più. Un tempo forse.
Si. Sarebbe scappato.
Avrebbe chiesto aiuto al padre che in tutti quegli anni lo aveva coperto. Si sarebbe addossato anche questa responsabilità. Come le altre che Andrea non si era mai voluto o potuto prendere.
Ma adesso No. Non più. Adesso era vivo.
Si alzò di scatto. Prese tutte le carte che aveva sulla sua scrivania di scrittore e le bruciò nel tinello della cucina, compreso il prezioso modulo bancario. Appena le fiamme ebbero finito di lambire tutte le parole, aprì l’acqua per far scorrere via le ceneri nello scarico del lavandino.
Ricompose la caffettiera. La mise dentro una busta e scrisse sopra il nome e l’indirizzo di sua madre. Al suo interno solo un biglietto a farle compagnia: “Grazie. Mi è stata molto utile”. Quindi la posò con cura sul tavolo della cucina, facendo attenzione che l’indirizzo fosse bene in vista.
Andò nel soggiorno-camera da letto-studio, raccolse il suo computer e tutto il necessario e lo infilò dentro lo zaino. Prima di uscire, ringraziò quelle quattro pareti che lo avevano accolto con tanto amore.
“Arrivederci!” disse, ed uscì senza chiudere a chiave.
Corse fuori alla fermata dell’autobus. Attese qualche minuto guardando l’orologio. Come se avesse paura di non farcela. Di arrivare tardi.
Lo vide delinearsi all’orizzonte. Attese che l’autobus si fermasse e salì senza pagare il biglietto, anche perché nelle sue tasche non vi era l’ombra di un centesimo dopo aver acquistato le sigarette. Una volta arrivato alla stazione di Saronno, prese il treno per piazzale Cadorna, pagando il passaggio allo stesso modo del precedente. Arrivato in città, scese in metropolitana e passò dall’ingresso dedicato agli abbonati senza pensarci due volte. Scese ad una delle fermate del centro, come se sapesse già dove andare. Salì le scale, si voltò, e vide un bell’Hotel lussuoso che si stagliava alto e fiero all’uscita della metro.
“Deve essere lì che mi aspettano” Pensò tra se e se.
Entrò.
“Buonasera” esclamò il portiere, nella sua bella divisa scura con i bottoni color oro sulle spalline.
“Buonasera” disse Andrea. “Posso avere una stanza?”
“Mi faccia controllare…” rispose il portiere. “Abbiamo libera la 232. Posso avere un suo documento per favore?”
“Certo” Rispose Andrea. “Eccolo” disse, porgendo la sua carta di identità al concierge “Fumatori, mi raccomando” aggiunse Andrea.
“Come desidera. Si fermerà molto con noi?” domandò il portiere, un po’ insospettito dall’assenza di bagagli fatta eccezione per lo zaino.
“No, penso solo stasera.” Rispose tranquillamente Andrea.
“Ecco qui. 232. Secondo piano” disse affabilmente il portiere consegnando le chiavi della camera al facchino che, prontamente, si era presentato al bancone al richiamo tintinnate del campanello.
Il facchino gli aprì la camera e lo fece entrare. Tese la mano per ricevere la mancia e Andrea gliela strinse calorosamente per ringraziarlo.
Era esattamente la stanza che aveva sempre immaginato. Le stesse tende, lo stesso copriletto, lo stesso posacenere di ceramica bianca con impresso il logo in oro dell’albergo. Si sedette alla scrivania posta ai piedi del letto, tirò fuori dallo zaino il suo portatile e lo accese. Dopo aver aspettato che finisse tutti i processi iniziali, avviò il player mp3 e riprodusse l’incantevole brano di Ennio Morricone, che aveva scaricato qualche tempo prima in un internet point. Si accorse di non avere le sigarette. Le aveva dimenticate sulla sua scrivania di scrittore.
“Porc… No. Non si può fare senza la sigaretta! Scusate. Torno subito” Esclamò Andrea. Fermò l’esecuzione del brano, scese giù nella hall e ne domandò una al portiere che, guardandolo un po’ perplesso, gliela porse senza esitare. Risalì sopra di corsa, sentendo gli sguardi di tutto il personale addosso. Sorrise. La cosa cominciava a farsi divertente.
Strisciò la carta magnetica e aprì la porta della stanza. Si mise la sigaretta in bocca e si frugò in cerca dell’accendino. Ovviamente come sempre accadeva ne era sprovvisto ma per fortuna, l’Hotel aveva preventivato tali casi ed aveva preparato sul posacenere un pacchetto di cerini con impresso il logo in oro. La accese infilandosi in tasca i cerini rimanenti. Ne tirò una lunga boccata e la posò sul posacenere bianco posto nell’angolo destro della scrivania, sopra le brochure con la descrizione dei servizi offerti. Avviò nuovamente la colonna sonora sul player mp3. Mancava solo il messanger attivato, ma a quello rimediò subito usufruendo della connessione ad internet dell’Hotel.
Adesso sì che era tutto perfetto.
Era finalmente entrato dentro il suo romanzo. Dentro il suo incipit. Dentro la sua vita.
Aprì un nuovo foglio word, dopo essersi assicurato di aver cancellato l’odiato file senzatitolo.doc e aver svuotato più volte il cestino per essere sicuro di averlo cancellato per sempre.
Le mani gli tremavano un po’ per l’emozione mentre scriveva la frase di ringraziamento. Tirò un’altra boccata dalla sua sigaretta. Estrasse dallo zaino la pistola che si era procurato il mese prima alle colonne di San Lorenzo, perché si era convinto che tenerne una in mano gli avrebbe permesso di capire meglio cosa si provasse e quindi di poter finalmente doppiare l’ostacolo che lo teneva in stallo da quattro mesi. Sorrise mentre infilava le pallottole nel caricatore. Diede un colpo secco alla base della pistola con la parte finale del palmo destro. Clic.
Ringraziò la sua musa ispiratrice per la breve ma intensa vita da uomo libero che quel breve incipit gli aveva permesso di vivere e le fece un inchino prima di sedersi sulla comoda poltrona di broccato rosso posta davanti la scrivania. Portò la canna sotto il mento, impugnando saldamente la pistola con la sua mano sinistra. Appoggiò il dito indice sul grilletto. Chiuse gli occhi e andò serenamente incontro al suo destino.

Il giorno dopo un piccolo trafiletto sul Corriere riportava la notizia di un ragazzo che si era inspiegabilmente ucciso in una suite dell’Hotel del Centro, lasciando solo una sintetica frase sul monitor del suo computer. Le indagini erano ancora in corso. Le cause erano sconosciute. Uno studente taciturno dagli spessi occhiali e ancor più spesse occhiaie, lesse quell’articolo con molto interesse mentre stava dirigendosi in metropolitana all’Università di Roma per seguire una lezione di diritto. Lesse e rilesse quell’unica frase lasciata in eredità dal suicida con estrema attenzione. Alzò gli occhi e sorridendo, pensò che quello sarebbe stato un bello spunto per scriverne un romanzo.
- fine
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[Immagine] Vincent van Gogh. Camera da letto. Ottobre 1888. Amsterdam, Rijksmuseum

martedì 3 luglio 2007

Senza titolo - 3/4

[la prima parte]
[la seconda parte]

Andrea finì il caffè e si rimise davanti al monitor del portatile cercando di proseguire il racconto. Descrisse minuziosamente l’età del suicida. La sua barba incolta da una settimana. I quadri imbrattati appesi alla parete. Come era solito fare, si fermò alla fine del paragrafo. Rilesse ciò che le sue dita avevano digitato e, come sempre da cinque mesi a questa parte, tenendo premuto il tasto del backspace ne cancellò interamente il contenuto, riportando il cursore ai tre puntini di sospensione dopo la frase “non al computer…”.
Una volta gli sembrava troppo lungo, una volta troppo banale, altre troppo scontato e alla fine ritornava sempre all’iniziale fine. Non aveva ancora trovato neanche il titolo per il suo racconto. Ne aveva tanti in mente, ma nessuno sembrava andare bene per il suo capolavoro e nel frattempo continuava a salvare il file word con il nome di senzatitolo.doc.
Visto che tanto anche quella mattina non c’era modo di continuare, si prese altro tempo. Si infilò la camicia e scese a prendere le sigarette. Si chiuse la porta alle spalle, continuando mentalmente la sua storia.

“Aspettativa? Non capisco. Perché ti servirebbe dell’aspettativa?” Gli aveva chiesto perplesso il direttore la mattina successiva.
“Perché ho bisogno di un periodo di riflessione.” Aveva risposto sinceramente Andrea, confidando nella comprensione del suo superiore.
“Se hai bisogno di riflettere, una giornata di ferie sarà più che sufficiente. Per adesso non è il momento di riflettere. E’ solo il momento di lavorare!” Aveva risposto il direttore, visibilmente alterato nel viso.
“Lei non capisce. Ho bisogno di un periodo per capire cosa voglio fare. Come si sta svolgendo la mia vita” aveva cercato di replicare Andrea.
“Ascolta Andrea” aveva proferito perentorio il direttore “non se ne parla. Se vuoi domani stai pure a casa, ma dopodomani ti voglio qui in ufficio e basta.”
“Non si disturbi ad aspettarmi. Me ne vado”
aveva detto orgoglioso Andrea.
“Passerò a prendere le mie cose quando avrò tempo. Faccia i suoi calcoli e mi liquidi i miei soldi sul conto.” Detto questo, si era girato e senza voltarsi era uscito dalla porta mentre il direttore sbraitava alle sue spalle. Aveva attraversato il corridoio della filiale sotto gli sguardi increduli dei colleghi, che lo avevano sempre considerato un debole, un senza palle. Aveva salutato solo la sua vicina di scrivania, Silvia. La sua compagna di fumo preferita. Aveva raccolto la giacca e lo zaino ed era uscito per sempre da quell’ufficio.
“E tu? Che ci fai a casa a quest’ora?” gli aveva chiesto subito la madre, vedendolo rincasare a quell’ora del mattino.
“Mi sono licenziato” aveva serenamente risposto Andrea.
“Hai fatto cosa?” Gli aveva chiesto la madre, credendo di aver capito male.
“Mi sono licenziato” aveva replicato Andrea.
“Salvatoreeee! Vieni subitooooo!” gridò atterrita la madre per richiamare l’attenzione del marito.
“Tuo figlio è stato licenziatoooooo!!” urlò scoppiando a piangere.
“Non mi hanno licenziato loro. Mi sono licenziato io” aveva ribadito Andrea. Fiero della sua decisione.
“E me lo dici pure! Ma che minchia ti passa per quella testa? Sei impazzito?” aveva reagito il padre una volta che sua madre era riuscito a distoglierlo dal telegiornale e a spiegarli l’accaduto.
“E adesso cosa pensi di fare?” gli aveva chiesto alla fine, arreso.
“Scrivere” aveva risposto Andrea. “Voglio solo scrivere”.
Quella stessa mattina era andato a comprare il suo portatile nel negozio di informatica vicino casa. Quello stesso pomeriggio aveva prenotato un biglietto del treno per Milano. Una cuccetta di 2° classe. Il primo letto in basso. La madre, mentre stava per chiudere la valigia, gli aveva dato la vecchia caffettiera napoletana della nonna. “Potrebbe esserti utile… visto che devi scrivere” erano state le uniche parole che la donna era riuscita a proferire prima di scappare a piangere in cucina.
Mentre si avviava a piedi verso la stazione centrale, guardò il teatro Massimo che si stagliava alla sua destra. I quattro canti. Casa Professa. Li guardò per l’ultima volta e per la prima volta si sentì davvero bene e in pace. Per la prima volta, sul treno, guardando fuori dal finestrino non vide solo la sua immagine riflessa. Sul traghetto, respirò la brezza di mare che lo separava per sempre dalla sua isola. La trattenne nei polmoni sperando che, in qualche modo, un po’ di quella salsedine si depositasse nel suo corpo. Quella mattina il fischio lo avvertì dell’ingresso in stazione. Vide le enormi cupole abbracciarlo, stringerlo a sé. Di colpo, per un attimo, dimenticò tutto: il viaggio, Francesca, le liti. Era solo uno scrittore. Nient’altro.
Pasquale era lì sul binario ad attenderlo. Sempre con il suo sguardo perso nel nulla e l’immancabile sigaretta imbottita tra le mani.
“Compà” gli aveva detto al telefono la sera prima, con il biglietto del treno appena stampato tra le mani “domani sono a Milano.”
“Dai… bello… allora ci vediamo”
aveva risposto Pasquale, con quel suo perenne atteggiamento da fricchettone.
“Veramente… avrei bisogno di un posto dove dormire. Ho deciso di trasferirmi” Aveva timidamente risposto Andrea.
“Dai… bello… allora stai da me… tanto di spazio ne ho” Aveva risposto tranquillamente l’amico che, a dispetto del suo atteggiamento e del suo modo di vestire, lavorava per una delle maggiori società pubblicitarie del paese. Si conoscevano dai tempi del liceo. Ne avevano passate tante assieme. Se Andrea usciva con una ragazza, Pasquale gli chiedeva subito se avesse un fratello. Sapeva delle sue inclinazioni. Ma a lui non era mai importato. Ci avevano sempre scherzato su. Era un amico. Solo un amico. Di quelli che non occorre sentire tutti i giorni per sapere che ci sono. Era andato via subito dopo il diploma e non era mai più tornato. La madre di Pasquale ogni tanto chiamava la sua. La telefonata finiva sempre con sua madre che la consolava. Andrea girava la testa e usciva.
Per tutto un intero mese. Il primo, rimase lì. A casa sua. A ridosso del naviglio. In un loft mansardato arredato da un famoso architetto. Il compagno precedente di Pasquale. Sotto la sapiente guida del suo amico, Andrea scoprì l'altra anima della capitale meneghina. Le persone più in e quelle più out. Dopo quei trenta giorni sapeva a memoria i nomi dei barman dei locali più trendy e i soprannomi dei maggiori spacciatori. Dalle colonne di San Lorenzo a Corso Como. Da Brera alla Darsena.
Alla fine aveva deciso di andarsene per il bene del suo libro. Un intero mese tra feste e alcool e neanche una volta aveva pensato di continuare il suo romanzo. Dopo un piccola ricerca, aveva trovato un piccolo monolocale in affitto in un palazzo popolare di un paesino al limitare dei confini di Saronno. Molto meno costoso e lontano dalla Madunina. Non c’era neanche la metropolitana. Solo un autobus per i lavoratori della fabbrica situata lì vicino. Non era certo granché, ma per lui bastava e poi, una volta divenuto ricco e famoso, si sarebbe potuto vantare dei suoi inizi bohemien e magari lo avrebbe raccontato anche in TV. Pensava.
La fama forse gli avrebbe permesso anche di riappacificarsi con suo padre che continuava ad accusarlo di aver buttato la sua vita nel cesso e di avergli impedito di continuare nella sua fulgida carriera di sportellista di banca ormai quasi sessantenne.
Andrea i primi giorni, le prime settimane, pensava e ripensava spesso a quelle scene svoltesi in sole 48 ore, cercando sempre di cacciarle dentro il suo cervello, chiudendo gli occhi e scuotendo forte la testa. Cercando di sostituire i brutti ricordi con il miraggio della fama e del successo. Per l’arredamento lo aiutò Pasquale dandogli alcuni vecchi mobili che aveva in cantina. Una scrivania, un letto. A lui non serviva altro. La cucina era già arredata – se così si può definire – da una vecchia macchina a gas e un frigorifero anni sessanta. Un armadietto di formica marrone sopra il lavello di ceramica bianca.
I giorni iniziarono ad avanzare sempre uguali. Le settimane divennero mesi. I soldi, nel frattempo, si erano praticamente esauriti senza che il suo file word si fosse incrementato di una sola pagina. Aveva dovuto vendere anche la sua amata motocicletta da enduro. Aveva sempre sognato di possederne una e quella era stata la prima spesa che aveva fatto da uomo libero. Suo padre gli aveva sempre proibito di averne una. L’unica concessione era stata la possibilità di prendere la patente. Adesso, dopo quasi dieci anni, era riuscito a coronare il suo sogno. Anche se per breve tempo. Erano rimasti soli: lui e il suo programmatore suicida.
“Perché ti sei ucciso, fottuto bastardo!” Ripeteva ossessivamente Andrea con la testa tra le mani.
“Perché sei venuto da me? Cosa ti ho fatto! Io avevo una vita! Mi sarei dovuto sposare due mesi fa e forse adesso aspetterei anche un bambino!” Continuava a chiedere al suo unico compagno di avventura.
“Perché ti sei ucciso? Che cazzo c’entra quella fottuta musica, quella fottuta camera d’albergo e quella strafottutissima frase!” Ma il suo programmatore non rispondeva.

(continua - quarta parte)
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[Immagine] Francesco Correggia - La valigia dell'alchimista - 1983

domenica 1 luglio 2007

Senza titolo - 2/4

[la prima parte]

L’ultima sigaretta nel frattempo si era esaurita e Andrea fu costretto a rientrare e a sedersi nuovamente alla sua scrivania di scrittore. Rilesse ancora una volta l’incipit. Mise le dita sulla tastiera e poi... il nulla. Nessuna idea. Nessuna frase. Sapeva che continuare a spremersi le meningi sarebbe stato inutile, per cui decise che era arrivato il momento di concedersi un bel caffè. Aprì l’armadietto della cucina e tirò fuori tutto il necessario. Inserì la polvere dentro il filtro, la pigiò per bene e chiuse la caffettiera inserendo il coppitiello sul beccuccio, come gli aveva insegnato a fare sua madre. Posizionò la fedele compagna napoletana sul fuoco e si sedette sulla sedia posta di fronte. In attesa. Appoggiò il gomito sul tavolo e la faccia nella mano. Fissando la fiamma azzurra del gas che ne scaldava il fondo, riprese a pensare a quella sera.
Aveva salito le scale di corsa. Come faceva sin da bambino. Facendo gli scalini a due a due. Si era pulito e scarpe nello zerbino con la scritta Welcome e aveva aperto la porta. Sua madre era intenta a cucinare la cena e suo padre era come sempre seduto in poltrona davanti al telegiornale di turno. Dopo un veloce saluto, si era infilato subito in camera sua, per scartare il pacco che si sera regalato poco prima. Dopo aver posato il blocco e le matite sul sottomano di pelle scura, aveva tirato fuori dalla tasca interna il prezioso modulo bancario. La giacca e la cravatta erano finite sul letto scomposte. La camicia bianca le aveva seguite poco dopo. Aveva posizionato il foglietto sul tavolo accanto al blocco per gli appunti, cominciando a lisciarlo un po’ con le mani.
Lesse e rilesse più volte quell’incipit, dando ogni volta un’intonazione diversa. Cercava di figurarsi in mente la scena del delitto e quello che ne era scaturito.
La cameriera del piano sente lo sparo. Preoccupata avverte la portineria. Si precipita nella camera cercando il passepartout nella tasca del grembiule bianco. Gli altri ospiti iniziano preoccupati ad aprire le porte delle camere. Il brusio delle loro voci viene interrotto dall’urlo della donna davanti la scena. Il facchino al piano la abbraccia, portandone la testa sul suo petto per farle distogliere lo sguardo da quella orribile scena. E poi. La polizia. I rilievi. Il pennello dalle setole nere della scientifica che asperge la polvere di grafite sui tasti del portatile per rilevarne le impronte. Il mozzicone di sigaretta dentro la busta bianca di plastica per le analisi. Le indagini. I motivi che avevano portato il programmatore al suicidio. Ma era stato davvero un suicidio? O forse il programmatore era stato ucciso e poi l’assassino aveva inscenato tutto? Era davvero un programmatore?
Continuava a porsi quelle domande, per cominciare a dare una trama al suo romanzo e nel frattempo aveva ricopiato in bella calligrafia l’inizio sul blocco nuovo. Mentre scriveva, un’orgia di immagini, di suoni, di odori si susseguivano ininterrotti nella sua mente. Aveva appena completato il periodo e posto i tre puntini dopo la frase “non al computer…” che sua madre aveva urlato a tutti i componenti della famiglia che la cena era pronta in tavola.
“Com’è andata oggi?” gli aveva chiesto suo padre senza neanche distogliere lo sguardo dal telecronista del TG5.
“Mah… le solite cose… bonifici, assegni scoperti, prelievi… nulla di nuovo…” rispose Andrea.
“E la signorina Puleo? Ha poi avuto quella promozione?” aveva replicato il padre, che in quella banca aveva passato trentacinque anni ed era andato in pensione a malincuore per il bene del figlio.
“No.” Aveva risposto sinteticamente Andrea, alle prese com’era con le sue indagini.
Al termine di quella cena, sua madre aveva preparato come di consueto il caffè nella stessa caffettiera che adesso stava cominciando a spandere i suoi profumi per la piccola cucina del suo monolocale.
“Ma stasera non hai il corso prematrimoniale da Don Gianni?” gli aveva chiesto preoccupata la madre, vedendo il figlio tranquillamente seduto nel balcone a fumare.
“Caaazzooo… è vero… è tardi… Francesca sarà già lì… Sarà incazzata nera” aveva risposto il ragazzo. “Vabè… esco… ci vediamo dopo.. Ciao mà, ciao pà”.
Francesca era sull’uscio della sagrestia, ad attenderlo con il cellulare in mano.
“Ma dov’eri finito? E perché non rispondi al cellulare?” aveva chiesto la ragazza.
“Eh?... Ah!...Ehm.. L’avrò dimenticato in camera” si era giustificato Andrea, ricordando benissimo di averlo spento per non essere disturbato.
“Hanno già cominciato?” chiese per sviare le indagini.
“No, non ancora. Per fortuna Don Gianni è andato lungo con la messa serale. Entriamo dai.” Disse Francesca prendendo la mano del suo promesso sposo.
“Che fortuna!... eh!” disse Andrea. Ed entrarono.
Quella sera il nubendo non ascoltò molto delle prediche e delle raccomandazioni che Don Gianni impartiva ai giovani fidanzati circa la sacralità del matrimonio o le modalità da seguire affinché i loro amplessi coniugali potessero essere consoni ai dettami imposti dal Vaticano.
All’uscita, Andrea aveva salutato di fretta Francesca, dicendole che aveva del lavoro da svolgere per l’indomani. La ragazza gli aveva dato un casto bacio sulla bocca ed era salita in macchina allontanandosi nella notte. Avrebbe rivisto Francesca il giorno dopo. Le avrebbe comunicato la necessità di rimandare il matrimonio. Le avrebbe detto che aveva perso il lavoro per seguire la sua nuova strada.
“E adesso come facciamo?” gli avrebbe chiesto in lacrime la ragazza.
“I parenti già avvertiti, il vestito, la chiesa, la casa, i mobili prenotati, le bomboniere, DON GIANNI!… ti odio!” avrebbe ripetuto ossessivamente Francesca.
“Ma io… non l’ho fatto apposta… cioè… un po’ si… capiscimi… io voglio solo... scrivere” avrebbe cercato di giustificarsi Andrea, contribuendo a far accendere ancor di più l’animo della ragazza.
“Scrivere??... Scrivereee?? Lui vuole scrivere!! Ma tu sei solo un pazzo!! Un coglione!! E io che ho perso tutto questo tempo con te!! Vaffanculooo!!” avrebbe risposto Francesca iniziando a battere i pugni sul petto di Andrea.
“Scrivere… LUI VUOLE SCRIVERE!!...E a me non ci hai pensato? Come faccio io adesso?” Gli avrebbe urlato in faccia la ragazza, in preda ad una crisi isterica in piena regola.
Andrea le avrebbe chiesto capirlo. Di amarlo veramente. Il giorno dopo si sarebbero lasciati, per sempre. Se solo Andrea avesse saputo in quel momento ciò che sarebbe successo di lì a poche ore. Se solo avesse saputo che quello sarebbe stato l’ultimo bacio che si sarebbero scambiati. Avrebbe potuto forse amarla. Per l'ultima volta. Forse sarebbe stato meno frettoloso. Forse.
(continua - terza parte)