mercoledì 29 ottobre 2008

Ad ogni azione corrisponde una reazione senza formaggio.

Avete presente quei film in cui uno scienziato è intento a far correre un topolino dentro un labirinto e sol perché la cavia raggiunge il tozzo di formaggio posto alla fine del tunnel, lo scienziato riesce a trovare la cura per tutte le malattie del mondo compresa la cellulite? Ecco, più o meno questa è la sensazione che provo da qualche giorno, come se qualcuno o qualcosa voglia mettermi alla prova. Ecco, troppi anni di tabacco geneticamente modificato e di fitocannabinoidi hanno dato i loro frutti e quel che rimane della sua mente instabile è definitivamente andato in pappa, direte voi, e invece vi sbagliate perché il mio neurone funziona ancora correttamente, anche se al mattino trova sempre traffico sulla tangenziale ovest delle sinapsi, ma non divaghiamo perché il punto qui non è ciò che resta del mio ipotalamo, quanto le strane situazioni che mi trovo ad affrontare ultimamente nel corso delle giornate. L'altra mattina ad esempio, dopo aver lasciato come tutte le mattine la macchina in seconda fila con le quattro frecce ed aver gustato in pace il meraviglioso cornetto alla marmellata e il caffè dell'Ambrogina, mi accorgo che si era fatta una certa.
Una vecchina mi si avvicina e mi chiede "Scusi, mi darebbe qualcosa per fare colazione?"
Visto che un palermitano non negherebbe un caffé manco al suo peggior nemico, rientro nel bar ordino una brioches ed un cappuccino per la signora, quindi pago saluto ed esco.
"Oh, corbezzoli, son già le dieci... è opportuno che mi sbrighi a recarmi in ufficio" o come direbbero a Courmayeur esclamo "Minchia ch'è tairduuu!!".
Sgommo via, passo con il giallo che però c'aveva ancora quel qualcosa di verde, giro, allazzo, accellero e arrivo sotto l'ufficio. Uno dei parcheggi più ambiti della zona si libera al mio passaggio, frenata, retromarcia e alè, op è fatta.
"Minchia culo!" Parcheggio, prendo zaino, cellulare e ipod e scappo in ufficio.
Passo le solite otto, dieci ore a buscarmi u pani e magicamente alle 18,30 riesco a venir via da quel luogo di perdizione mentale. Camminando verso il parcheggio, noto una macchina posta in seconda fila davanti la mia,
"fanculo a stì terroni che parcheggiano sempre in seconda fila" penso, ma non lo dico.
Poco più indietro noto due vigili in moto che fanno i rilevamenti e una seconda macchina nel mezzo della carreggiata.
"Ah, niente, incidente ci fu."
Dopo essermi comunque accertato che la mia Lei fosse incolume, chiedo al proprietario della vettura in seconda fila se può liberarmi l'uscita.
La scena che si presenta ai miei occhi è a questo punto la seguente: vecchietto sul rincoglionito andante le cui mani ancora tremavano per lo spavento provocato dall'incidente con la vettura posta indietro all'altezza dei vigili, moglie del di cui sopra vecchietto - anch'ella sul rincoglionito andante - totalmente terrorizzata, macchina della succitata coppia non marciante, nel senso che non si accendeva manco con un fiammifero. I vigili, gentili come un calcio sui denti, mi informano che la macchina comunque non poteva essere spostata finquando non avessero completato i rilevamenti e che quindi mi conveniva aspettare. La terza sigaretta post uscita era già tra le mie labbra. Al termine, i gendarmi belli belli, salutano, salgono sulla moto e vanno via. L'automobilista coinvolto, fa firmare il CID, saluta e bel bello va via. Insomma per farla breve questa bella manata di fanghi, come dicono alle mie parti, questo manipolo di gaglioffi ci abbandona e sulla scena rimaniamo io e i due anziani con la macchina in panne. Armato di buona pazienza, faccio scendere la signora dall'auto e la faccio accomodare nella mia macchina, quindi provvedo a spostare la loro fino allo spiazzo del benzinaio e qui, tra i pianti della signora convinta di dover lasciare la macchina li e il totale rimbambimento del marito, cerco di far partire la loro auto, rassicurandoli che alle brutte li avrei accompagnati io a casa. Intanto quella cazzo di macchina non ne voleva sapere di mettersi in moto. All'improvviso il colpo di genio: le auto nuove bloccano il flusso della benzina in caso di urto violento, quindi chiedo al signore il libretto di istruzioni della vettura. Dopo aver visto porre nelle mie mani il libretto di istruzioni dell'autoradio, intuisco che forse è meglio desistere e torno a cercare nel buio quel fottutissimo pulsante di sblocco. Forse qui, forse li ed ecco che ad un certo punto le mie dita lo toccano! E' lui... trovato...
Un liberatorio E vafan 'ntò cuuuulooooo! smorza la tensione.
Lo spingo, giro la chiave e vrroooom, la vettura è pronta all'uso. Dopo i convenevoli di rito, mi accerto che il signore sia comunque in grado di guidare, quindi rimetto i due signori in strada e alle 20 riesco finalmente a dirigermi verso casa.
Ora ditemi voi se questo non è un preciso disegno! Analizziamo i fatti.
Da quando mi son trasferito in quell'ufficio non ero mai riuscito a parcheggiare in quel posto, quindi vuol dire che nell'esatto momento in cui ho parcheggiato lì al mattino, ero già entrato nel mio labirinto. Era evidentemente previsto che parcheggiassì lì, perché era previsto che i due signori quella sera dovessero tornare a casa con la loro auto. Si, ma il mio formaggio? Mah!
Insomma è un pò di tempo che qualsiasi poveraccio che incontro per strada ha bisogno del mio aiuto, che sia un turista perso dalla parte opposta di Milano, una signora che mi chiede un passaggio o un qualsiasi altro fottuto cittadino del mondo che ha bisogno di qualcosa.
Vado a far benzina ad un self service sperduto nella campagna Milanese? Ecco che subito trovo pronta la signora che non sa neanche dove si trovi il tappo della benzina.
Ma che ho scritto in fronte? Mutuo Soccorso?
"Dai, madiamogli quella vecchia che deve attraversare, vediamo come si comporta..." mi sembra di sentir dire alle mie spalle.
E se mi ribello cosa succede? Finisce il gioco? Cala il sipario ed esce fuori il regista? E se mi mettessi pure io a fare il pezzo di merda, di quelli che non guarda in faccia nessuno?
No, non sarò una persona buona e questo è sicuro, ma manco un fango però!
Quindi ora chiedo a colui il quale si sta divertendo: DOVE CAZZO E' IL MIO PEZZO DI FORMAGGIO?

lunedì 20 ottobre 2008

Conversion

Il momento era finalmente arrivato. Di li a poco gli infermieri sarebbero entrati nella piccola stanza posta al terzo piano del centro di riconversione per accompagnarla in sala di estrazione prima e in sala di incisione poi. La finestra era socchiusa, quanto bastava affinché gli odori della primavera solleticassero il suo naso e il suo corpo, nudo sotto il leggero camice bianco annodato sulla parte posteriore, cominciasse ad incresparsi di leggeri brividi. Il roseo e flaccido culo, la lunga e sinuosa schiena, le iper abbondanti cosce, i fianchi generosi. Niente era lasciato all'immaginazione di chi, passando lungo il corridoio, avrebbe voluto sbirciare l’interno della stanza, attraverso la porta socchiusa. Ma purtroppo per Marina, nessuno era interessato a stuzzicare la propria immaginazione con un involucro del genere.
Il grande specchio posto sopra il lavabo della parete di fronte sdoppiava l’interno e Marina, stufa di aspettare il suo turno, si alzò dal letto, vi si avvicinò e lentamente si sfilò via il camice. Erano anni che non fissava il suo corpo o forse, lo aveva fissato e odiato troppe volte per continuare a farlo.
Osservò con attenzione quei seni lunghi, grossi ma tutto sommato ancora sodi per quanto guardassero sempre verso il pavimento, solcati qua e là dalle smagliature causate dall’allattamento di Luca, di Matteo e infine di Giada. Accarezzò quel ventre rugoso e flaccido come uno shar-pei, coccolato tante volte durante le tre lunghe attese e quelle cosce affusolate come una pera capovolta che un tempo erano il suo orgoglio e che suo marito non sfiorava più da anni. Marina non era più una donna, si era ormai trasformata nel peggiore degli esseri umani: una mamma. Una madre tenera, affettuosa e premurosa pronta a donare tutta se stessa agli altri anche a discapito di se stessa. Una madre sempre pronta ad asciugare il nasino gocciolante dei figli con il fazzoletto riposto all’interno della manica, a consolarli quando si sbucciavano un ginocchio cadendo dalla bicicletta, a non far mai mancare una fetta di torta per la merenda. Marina era una di quelle donne grasse che ispirano fiducia e tenerezza, quelle che vorresti coccolare quasi fossero un animaletto da compagnia e questo era ormai per suo marito: un animaletto da compagnia grasso.
Eppure in lei l’ardore, la voglia di esser la peggior puttana nel letto per il suo uomo non si era mai sopita, ma quel corpo le aveva ormai precluso ogni possibilità di portare a termine qualsivoglia intento amoroso. Non che suo marito non la amasse, intendiamoci, ma con l’andar del tempo e l’inspessirsi della sua figura, egli aveva semplicemente trasformato l’amore fisico di un tempo in un sentimento mentale, fatto di rispetto, di casti bacini sulla guancia al mattino, sul ciglio della porta prima di andare al lavoro e di teneri baci sulla fronte prima di dormire. E quei baci per Marina, bruciavano più del fuoco. Proprio lui, che non perdeva mai occasione di carezzarle i seni quando questi erano giovani e rivolti alla luna. Proprio lui, che tempo addietro aveva accarezzato e amato il suo corpo in tutti i modi possibili, aveva semplicemente ridimensionato il suo sentimento in un rapporto fraterno, nell’attesa che la conversione venisse effettuata. Possibile che non riuscisse ad andare oltre quell’involucro, si era sempre chiesta Marina? Eppure il suo interno era sempre lo stesso, non era mutato. Certo, alcuni modi di fare nel corso del tempo erano variati, i suoi modi erano cresciuti come il suo corpo, ma tutto sommato lei era la stessa donna della quale suo marito si era innamorato in quel lontano giorno di Settembre, quando la vide uscire dall’atelier nel quale ogni tanto sfilava per arrotondare un po’ durante i suoi studi.

- “stanza 245… 20 minuti!”

L’urlo dell’infermiere di turno riecheggiò forte per il corridoio. La stanza 245 era la sua.
Venti minuti, ancora venti minuti e poi sarebbe stata una donna nuova o, per meglio dire, sarebbe stata nuovamente la se stessa di trenta anni fa. Suo marito non aveva badato a spese, aveva scelto il modello più costoso e come per lui, che aveva fatto la conversione tre anni prima, aveva dato incarico allo stesso artigiano di creare un involucro unico appositamente per lei, sulla base di una foto che lui stesso le aveva scattato sulla spiaggia di Alassio quando erano fidanzati, una foto in cui Marina dimostrava tutta la sensuale bellezza dei suoi vent’anni. Almeno non avrebbe rivisto la sua faccia sulle tante persone che acquistavano i modelli economici sui cataloghi della clinica, su internet o nei centri commerciali e che affollavano i mezzi pubblici al mattino. La pelle veniva coltivata in apposite serre, i nasi, le orecchie, le lingue e tutti gli orpelli, anche i più intimi, venivano fatti appositamente crescere sul dorso di topi da laboratorio. Certo, l’idea di avere in bocca e tra le cosce dei pezzi di sorcio non la allettava molto, ma questo era il prezzo da pagare per vivere per altri cento cinquanta anni accanto ai suoi figli, ai suoi nipoti e ai nipoti dei nipoti. Da quarant’anni ormai nessuno aveva più bisogno di trasfusioni o di trapianti, le malattie genetiche, i tumori erano solo un lontano e triste ricordo del passato. I muscoli erano composti da una schiuma che una volta spruzzata sull’esoscheletro di policarbonato di titanio, si espandeva andando a formare le striature, i tendini e tutte le caratteristiche tipiche del muscolo umano. Tutto il sistema veniva irrorato da un liquido per consentire il raffreddamento dell’impianto e del quale gli scaffali dei super erano pieni. Per ovviare il problema della sovrappopolazione era stato stabilito dal Comitato Internazionale di Conversione Umana che la vita di un uomo, comprese le successive proroghe ed eccezion fatta solo per coloro i quali si erano particolarmente distinti in vita, non poteva mai superare i duecento anni. Di fatto c’era gente che circolava da molto più tempo, bastava conoscere le persone giuste e allungare qualche euroyen. La loro data di disattivazione era stata fissata dall’ufficio disattivazione del comune per il 28 luglio del 2238: la stessa data per entrambi, così almeno nessuno dei due sarebbe rimasto senza compagno. In quei tre anni dopo la conversione, aveva visto suo marito sempre lo stesso: nessuna nuova ruga a segnare il volto, nessun capello che un mattino avesse deciso di cambiare colore o di abbandonare per sempre la sua sede, eppure a lei era piaciuto così tanto vederlo invecchiare nel corso dei suoi primi cinquant’anni con il suo corpo iniziale, perché significava averlo accanto, comprendere i suoi acciacchi al mattino, la sua tosse da fumatore incallito. Perché anche questo significava amarlo. Poi, di colpo, da una giorno all’altro, lo aveva rivisto esattamente come lo aveva conosciuto, con lo stesso aspetto dei suoi splendidi trent’anni. In quei tre anni non lo aveva più sorpreso a canticchiare di fronte lo specchio del bagno, mentre cospargeva di schiuma la sua faccia per radersi o sorridere dopo aver riempito un tumbler di ghiaccio, per il crepitio prodotto dai cubetti quando venivano annaffiati da una abbondante dose di Jack Daniel’s. Gli involucri non avevano bisogno di cibo, di alcool, di vita. Due pile ad atomi di idrogeno consentivano l’autonomia per qualche centinaio di anni. Gli uomini non morivano più semplicemente si spegnevano, per legge. E per la data prefissata si organizzavano delle grandi feste di commiato, dove si rideva, si scherzava e si prendeva congedo dai propri cari. Feste senza cibo, feste senza lacrime: l’esoscheletro non poteva. Avrebbe sopportato le lamentele di sua suocera per altri centosessanta anni, a meno di un miracolo. Di per se la conversione era semplice e non durava mai più di due o tre ore, in funzione di quanto un uomo aveva vissuto ed accumulato in termini di ricordi e conoscenza. La memoria veniva estratta e registrata su appositi supporti di storage per il trasferimento e quindi riversata all’interno dei banchi contenuti all’interno dell’involucro prescelto. A richiesta, con un piccolo extra, prima dell’incisione era possibile filtrare alcuni ricordi: quegli episodi che chi più chi meno abbiamo tutti e che cerchiamo di dimenticare rilegandoli nella parte più nascosta dell’ipotalamo. Un piccolo gesto e quei ricordi non ci sarebbero stati più davvero e questa volta per sempre. Nel corso dell’operazione, si potevano vedere sul monitor le immagini dei ricordi volare da una cartella all’altra. Un foglietto per il suo primo giorno di scuola, un altro foglietto per quella giornata al mare, d’inverno, quando aspettava Matteo e si divertiva con Luca a far rimbalzare i sassi piatti lungo la battigia. Un altro foglietto per l’odore di Giada appena nata. Un altro per la prima volta che aveva fatto l’amore con suo marito, sul pianerottolo all’ultimo piano del palazzo dove lei abitava allora. Un altro per la sua anima. Al risveglio, dopo un piccolo periodo di riabilitazione per adattarsi alla nuova scatola, semplicemente si proseguiva la propria vita all’interno di un altro involucro del tutto simile al modello primario donato dalla natura. Il calore, la luce, gli odori e tutte le altre sensazioni venivano interpretate ed elaborate dai processori contenuti all’interno e una volta trasformati in impulsi, venivano inviati all’unita centrale di immagazzinamento che al termine consentiva di percepire una sensazione del tutto identica a quella provata dai corpi naturali. Il gusto non era finalizzato al nutrimento, ma solo al piacere personale, per poter ricreare nel cervello le stesse sensazioni di un corpo old style. Tutto quello che veniva immesso finiva praticamente intonso in una sacca contenuta all’interno del ventre che una volta riempita, finiva negli appositi centri di compostaggio. L’unica rottura era il doverla ripulire poi per bene con prodotti specifici. Una rottura che a lungo andare, placatisi gli entusiasmi dei primi tempi, stancava e la gente finiva per non usare più.
Certo questo era davvero un peccato, soprattutto per lei che adorava così tanto sorseggiare un buon bicchiere di gewurztraminer nei lunghi calici di cristallo che avevano nella vetrina della sala da pranzo.

- “stanza 245… 10 minuti!”

Marina si rinfilò il camice: la nuda verità riflessa allo specchio cominciava a darle noia.
Di li a poco sarebbe stata perfetta: bella, soda e fresca come una volta e non ne vedeva l’ora. Aveva atteso quel momento per due lunghi anni, il tempo necessario alla costruzione del suo modello personalizzato. Avrebbe fatto sesso, di nuovo e di nuovo per la prima volta. Anche in quel campo gli scienziati non si erano certo risparmiati riuscendo a riprodurre esattamente gli stessi impulsi mentali e le stesse sensazioni prodotte dal corpo di default, soltanto non occorreva più preoccuparsi di eventuali gravidanze inattese per coloro i quali, come lei, avevano scelto di partorire in modo naturale. Anche per questo avevano deciso di fare il salto solo una volta che fossero arrivati ai cinquanta anni e i figli fossero ormai grandi. Tutte le sue amiche avevano partorito come ormai era di moda, in vitro ma loro avevano scelto di farlo come una volta, come le loro madri avevano fatto con loro e le loro nonne prima di loro. Erano delle persone semplici in fondo.
Ma i suoi figli, continuava a domandarsi Marina, l’avrebbero amata ancora come prima? Matteo le avrebbe di nuovo slacciato il grembiule, avvicinandosi pian piano alle sue spalle ogni volta che la sorprendeva intenta a cucinare, per poi farsi perdonare dandole un grosso bacio? E Luca? Non avrebbe più potuto fare quelle sue stupide battute sulle sue forme dopo averne misurato la circonferenza con un abbraccio. E Giada, la piccolina di casa, non avrebbe più potuto rifugiarsi a piangere sul suo grosso e morbido seno quando l’ennesimo figlio di buona donna l’avrebbe mollata. Avrebbe avuto di nuovo vent’anni fino alla morte, una morte prefissata della quale avrebbe potuto contare i secondi che intercorrevano. Mai più un raffreddore di stagione, mai più gli occhi gonfi per l’allergia primaverile. Ma l'alternativa era invecchiare, morire in una data imprecisata, non vedere i propri nipoti crescere e farsi uomini, donne. L'alternativa era vivere alla giornata come tanti secoli fa, buttando via tutte le conquiste della scienza. Si, l'unica era farsi convertire, come avevano fatto tutte le sue amiche, sua suocera, suo marito. Era l'unica cosa saggia da fare.

-“stanza 245, paziente 678-05-454-2, è ora”

L’urlo dell’infermiere riecheggiò nella stanza vuota dove un camice bianco era disposto in bell’ordine ai piedi del letto. In sessant’anni di servizio era la prima volta che gli accadeva di assistere ad una cosa del genere: nessuno aveva mai rinunciato all’immortalità, alla giovinezza eterna. Alquanto stupito e irritato per la mole di moduli che gli sarebbe toccato compilare, non gli rimase altro da fare che correre ad avvertire la caposala che l’intervento delle 15,30 era annullato.

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[Immagine] Fernando Botero - Donna allo specchio

venerdì 10 ottobre 2008

Coming soon...

"... e come era entrato uscì, come sempre: battendosi per tre volte la mano destra chiusa a pugno sul petto, formando una grande V con indice e medio. "

Solo per dirvi che tonerò presto. Non mi sono preso una pausa, sto semplicemete elaborando la vita per poterne trarre qualcosa di buono. Come ho sempre fatto.

Nel frattempo passo dalle vostre finestre e in silenzio guardo dentro.
E in silenzio, vado via.

Namasteé gente!

असतो मा सद्गमय
तमसो मा ज्योतिर्गमय
मृत्योर् मा अमृतं गमय
ॐ शांति शांति शांति

Brihadaranyaka Upanishad 1.3.28.