mercoledì 20 agosto 2008

Scrivere, ovvero sognare.

Ho sempre sentito la necessità di fissare i miei pensieri su un supporto che mi consentisse anche a distanza di tempo di rileggere i colloqui strampalati che quotidianamente intraprendo con il saggio cappellaio matto che risiede nel mio cervello.
Nel corso degli anni ho scritto dappertutto: bigliettini, post-it, moleskine, quaderni. Una volta ho scritto persino sulla Repubblica, con un bel pennarello rosso, ma poi mia madre usò il giornale per rivestire la lettiera dei gatti. Nel tempo, la penna ha lasciato spazio alla tastiera e la morbida carta si è trasformata in un freddo e lucido monitor, ma l'esigenza è rimasta immutata: scrivere, sognare. Forse la colpa è di quel fastidiosamente melodioso ticchettio della macchina da scrivere che da bambino accompagnava le mie notti.

tip... tic... tlak... tlok
Ricordo la luce della lampada che dallo studio di mio padre filtrava verso la mia camera, attraverso la grande vetrata che separava la mia stanza di allora dalla sua. A volte mi alzavo nel cuore della notte e senza farmi vedere, aprivo piano piano la porta per vedere le sue dita picchiare senza sosta sui tasti della olivetti blu. Ad ogni pressione un omino di metallo si alzava dal suo letto semicircolare e imprimeva la sua lettera sul foglio di carta ben disteso sul tamburo e, a volte, anche sul suo gemello nero, nato dall'unione con il velo di carta carbone che veniva inserito fra i due.
stump... stamp...
Il cestello delle lettere che andava su e giù per consentire l'inserimento delle lettere maiuscole.
crick... clack
La leva bianca che alla fine di ogni riga veniva azionata dalla mano destra per consentire l'inizio di un nuovo pensiero. Punto e a capo.
Io restavo lì sulla porta, immobile, affascinato da quel certosino lavoro di codifica che consentiva il passaggio dalla minuta, scarabocchiata, annotata, cerchiata e vergata a mano ad un foglio di carta pulito, esteticamente perfetto, in carattere Courrier New, come si direbbe oggi. L'unico allora disponibile. E alla fine, se passavi un dito sul foglio, riuscivi a percepirne le asperità: i punti, le virgole, gli accenti, le lettere. Una maggiore affilatura del metallo e una maggiore pressione delle dita faceva in modo che la lettera o dei testi si tramutasse spesso un buchino circolare. Il numero 1 non presente tra i numeri, era abilmente sostituito dalla lettera "elle" minuscola.
Perché lo scrittore è, deve essere prima di tutto un esteta, un attento osservatore ma soprattutto un lettore. "Leggere molto, scrivere molto e pubblicare poco" ripete sempre mio padre e mai come oggi, dove chiunque si è scoperto capace di scrivere un libro, tale frase risulta una assoluta verità.
Oggi, la vera recherche di proustiana memoria non riguarda più le madeleine, ma il ritrovamento in libreria di un buon libro che al termine riesca a lasciare nella memoria del lettore la sensazione di aver finalmente chiuso uno dei tanti cassetti che purtroppo sempre più spesso la gente tende ormai a lasciare aperti o semplicemente ad ignorare. La percezione di aver appagato almeno per un po' la nostra sete. Alla fine di ogni testo dovremmo accorgerci che una piccola parte di noi stessi non è più la stessa, ma è mutata in qualcos'altro e toccherà a noi soli scoprire in cosa. Questo è quello che piace donare a me stesso quando leggo e quando ho la presunzione di scrivere. Scrivere solo a patto di riuscire a percepire durante la lettura le stesse emozioni provate al momento della stesura o illuminarsi di una nuova luce che prima non avevi colto. Ed è proprio questo amore per la carta, per la parola nella sua accezione più alta il più bel regalo che io abbia mai ricevuto da mio padre e mia madre.

Scrivere non è niente di più che un sogno che porta consiglio
[Jorge Luis Borges]


[Nella foto, mio padre, la sua macchina da scrivere e il compianto gatto Raffaele]