martedì 29 gennaio 2008

Dodici giorni



Il testo che vi apprestate a leggere è stato interamente scritto tra le 5,50 e le 8,30 di martedì 8 gennaio, in macchina. Gli errori, gli strani costrutti verbali che troverete, fanno parte del modo di colloquiare tipico del palermitano. Avevo bisogno di capire, di analizzare. Dovevo eliminare tutti i fronzoli per arrivare al cuore del problema. Il passato e il presente si erano fusi a tal punto da non riuscire più comprenderne la forma. Dovevo riportare tutto alla condizione iniziale: due coordinate per un punto. La mia lingua natia sulle ascisse, i miei ricordi sulle ordinate.

Dodici giorni. sei più sei. Due settimane orfane di due giorni. Un periodo imperfetto composto da una coppia di giorni uguali: due giovedì, due venerdì e via andare. Una dozzina di punti croce ricamati tra la trama e l'ordito del tempo. Dodici giorni tutti diversi che non torneranno mai più, manco se uno ce li volesse pagare a peso d'oro. La doppia sestina inizia il 27 dicembre. La piccola peste è stata parcheggiata dalla nonna perché io e la mia compagna dobbiamo andare al Mediaworld e va a finire come l'altra volta per l'asciugatrice, che il negozio restò in piedi per miracolo. Imbocchiamo la Milano Meda, per spuntare a piazzale Maciachini e da lì imboccare il Viale Jenner per arrivare a Piazza Napoli, nostra meta finale. La lista degli acquisti comprende un nuovo portatile, un iPod, un aspirapolvere e un navigatore Tom Tom, che non ne posso più di starci un'ora a trovare una strada che è dietro l'angolo. E visto che ci siamo, visto che ogni volta che uno deve stampare una fissarìa deve sempre fare il vero abbile, il sangue marcio, ci accattiamo pure la stampante. Abbiamo deciso di renderci la vita più facile. Ce lo meritiamo.
Il primo giovedì della dozzina, il 27 dicembre, avevamo appena imboccato la Milano Meda e il mio cellulare emette quel fastidioso suono che vuol dire che ci arrivò un messaggio.
"Ma chi minchia è?" esordisco.
Mentre guido, prendo il telefonino e in rapida sequenza, schiaccio il bottone centrale per leggere chi si è permesso farlo squillare, e mentre sono in ferie per giunta!
1 messaggio in arrivo.
E' mio fratello. Leggo il messaggio.
"Max, è appena morto lo zio L" L. è il fratello di mia madre. L. è mio zio. O almeno lo era fino a ieri.
"Oh, cazzo!" sono le uniche parole che la mia bocca riesce a pronunciare.
"Ma che è successo?" Chiede la mia compagna seduta sul sedile accanto al mio.
Manco faccio in tempo a dircelo, che squilla il suo cellulare con la suoneria di pollon. E' A. mia cognata, la moglie di mio fratello.
"Patry? E' morto lo zio L." ci fa mia cognata al telefono, le dice mia cognata al telefono.
"Si, me lo stava dicendo Massi..." ci fa mia moglie a mia cognata al telefono.
"Mi chi ci vinni?" Che cosa gli è successo? Faccio io mentre guido. D'altronde non era neanche tanto vecchio.
"Infarto, nella notte." Sentenzia mia moglie dopo che mia cognata aveva riferito la causa.
"Fino a ieri che era Santo Stefano, era in giro in bicicletta" aggiunge.
"Minchia!" esclamo.
Con mio zio non ci vedevamo da 7 anni. Dall'ultima volta che lui era salito a Milano e ci era venuto a trovare. Noi abitavamo ancora a corso Lodi, nel monolocale di 40 metri quadri comprensivi di bagno, cucina, ingresso, camera da letto, camera hobby, studio e tutto quello che ci facevamo. Tre anni ci abbiamo campato. Dormendo sul divano che la notte diventava letto e con la cucina che era più piccola del mio bagno attuale. Tre anni ci abbiamo campato. Tre meravigliosi anni. I primi. "La casa capa quanto vuole il padrone" si dice a Palermo. Picciotti, vero è!
Per lo zio avevo preparato la polenta con il sugo che io sapevo che a lui ci piaceva, perché lui è cresciuto con mia mamma a Pavia che mio nonno e mia nonna, qui in continente, ci passarono 10 anni. Quella fu l'ultima volta che lo vidi. Poi iddu, lui, si sciarriò con mia madre. Hanno litigato per via di mia nonna, che pure lei non era una santa, e allora non ci siamo visti più. Perché io sto lontano e quando scendo non ci penso mai ad andare a trovare i parenti, perché mi siddia, mi secca. E poi mia madre era sciarriata con lui e aveva pure ragione di esserlo, quindi perché andarlo a trovare?
Lo zio L. aveva un carattere burbero anzi veramente, per essere onesto, c'aveva proprio un carattere di merda. "Non è che perché uno è morto lo fanno santo" è stata la frase più ricorrente in questi giorni. Lo zio era ingegnere ed era sempre stato per me lo zio ricco perché lui aveva la casa di proprietà e il box e le mie cugine c'avevano sempre i vestiti belli e invece noi eravamo in affitto e a casa mia le scarpe si dovevano prenotare con due mesi di anticipo. Però almeno, in casa mia i libri non sono mai mancati. Ce ne avevamo così tanti che per passare nel corridoio dovevi metterti di sbieco. Pure nel cesso li avevamo messi. Ma a me non me ne fotteva nulla delle scarpe, neanche allora. Neanche oggi. Era lo zio taccagno, perché tutti lo sapevano che c'aveva lu immu, la gobba, il braccino corto come dicono qui a Milano. Era tirato insomma. "E' ricco, ma è taccagno" dicevano in giro. "Sono ricco perché sono taccagno" rispondeva lui. E' in quel box che ho imparato a stullichiare, ad aggiustare le cose. A capire come funzionano i meccanismi e ad imparare a sistemare le cose. Quando ero picciriddo lo zio L. mi passava a prendere tutti i sabati pomeriggio con il vespone e a me piaceva andare sul vespone, senza casco, che anche se casa mia dalla sua distava due strade, a me quel tragitto mi sembrava lunghissimo e speravo che non finisse mai. E qualche volta, che lui lo sapeva che a me mi piaceva, faceva il giro lungo, con la scusa che doveva andare a comprare qualche fissarìa da Migliore in via Notarbartolo, la ferramenta.
Ogni sabato pomeriggio, verso le tre, passava sotto casa con il vespone e senza manco scendere dal cavalletto, fischiava forte con le dita da sotto il balcone e io che lo sentivo, ci urlavo forte a mamma "Maaaa, c'è lo ziooo!".
Mia mamma si affacciava al balcone e lui sempre, tutte le volte, con tono quasi infastidito abbanniava, gridava "Ciao Lidù, fammi scendere il picciotto". Il picciotto ero io. E ogni volta sembrava quasi che mi facesse un favore a venirmi a prendere, ma visto che nessuno ce lo chiedeva mai di venirmi a prendere, io lo sapevo che allora voleva dire che a lui piaceva stare insieme a me al box a stullichiare, perché lui ci aveva due figlie femmine e a loro, alle mie cugine, non ci piaceva stullichiare al box. La matematica fu lui ad insegnarmela davvero. La fisica pure. La chimica anche. Lo zio c'aveva un carattere burbero anzi proprio di merda, ma sapeva spiegare bene. Mi voleva bene, anche se non me lo ha mai detto. Neanche io gliel'ho mai detto. "La megghiu parola è chidda chi un si dici." La parola migliore è quella non detta. A volte. Non sempre.
"Respira con il naso!" Mi diceva, mentre mi insegnava a nuotare a Mondello.
"Trattieni l'aria nei polmoni, che vedi che non affoghi!" Mi diceva mentre mi insegnava a galleggiare dove non toccavo, che a quel tempo era praticamente subito a pochi metri dalla riva, dove a lui l'acqua ci arrivava manco sopra il costume. Era alto lo zio L.
Dodici giorni fa è morto e io non ho pianto. Perché lo zio diceva sempre che piangere è da fimminedde, da femminucce e lui ci aveva due figlie femmine.
Quel giorno, siamo andati a comprare l'aspirapolvere che appena lo accendi si suca pure a mìa, il portatile nuovo che pare una televisione e la stampante. L'iPod e il navigatore non li abbiamo trovati che, vuol dire, tutti se li erano accattati? Tutti li avevano comprati? Manco se li regalavano a due a due finquando non diventavano dispari.
L'iPod lo abbiamo trovato il sabato prima di capodanno. Nella vetrina accanto c'era pure il Tom Tom del modello che volevo. Ma che fa, aspettavano a mìa? Aspettavano me?
Di lì a poco li avevo entrambi nelle mie mani.
Per me, le cose, gli oggetti, servono solo per essere usate e non è che muori se non ce l'hai. No, non muori, ma quando li tasti, quando li provi, allora inizi a chiederti come hai fatto a fare senza fino allora. Che', fa prima non si telefonava senza cellulare? Si telefonava lo stesso. Si usciva con il gettone e se c'avevi problemi, telefonavi a mamma e ci dicevi che tardavi. Ma quei due piccoli e insignificanti trabiccoli cinesi, per noi, rappresentano la fine di un capitolo. Rappresentano molto più dell'uso per il quale sono preposti. Arrivo a casa: accumincio a strumintiàre. Inizio a configurarli. Accendo per primo Mimì, il navigatore. Scarica, calcola, in un'orgia di preferenze, menù e sotto menù cerco di configurarlo al meglio. Al posto della frecciona blu ci metto pure l'icona della mercedes, che visto che ho una clio scassata mi sembra l'ideale. E alla fine, minchia, Mimì il navigatore le strade le trova davvero. Sono sempre stato bravo a strumintiàre. E quando sbaglio a girare, non mi cazzìa nemmeno, non mi sgrida nemmeno. Si limita mestamente a ricalcolare il percorso. E a me questa cosa mi piace davvero, abituato com'ero a ricevere le cazzìate dalla mia compagna. Forse sarà per quello che ci ho impostato una voce femminile, perché se devo mandarlo a fare in culo quando mi fa fare il giro del paese per girare l'angolo,
con rispetto parlando perché sempre di fìmmina si tratta, ci provo più gusto. Una sorta di rivincita silenziosa.
Per l'iPod invece la cosa è differente, a lui per rispetto non ci ho dato nemmeno un nome e invece lui, a me, mi ha aperto un mondo: il Podcast. Che praticamente vuol dire: "ascoltare tutto quello che ti pare quando vuoi". Il mio iPod, l'ho riempito di musica, delle foto di Lorenzo e Patry, dei filmati delle sigle dei cartoni alla televisione e di libri. Audio libri, come quelli che si leggono ai ciechi, che anche se ci vedi, ascoltarli è troppo bello. Bulgakov, Verga, Proust, Buzzati, Mann hanno trovato il loro posto tra i Queen e Pupo. Tra i Kiss e il video della sigla iniziale di Capitan Harlock. Quella con la ragazzina che corre lungo l'Arcadia. E poi gli sceneggiati radio della rai, quelli belli che ascoltavo da piccolo con mamma e che non sono più riuscito a sentire perché li fanno la mattina. Tutte le puntate insieme che così, non devo manco aspettare l'indomani. La notte mi addormento con le cuffie nelle orecchie; la mattina, mentre vado in ufficio, una delle due cuffie è cacciata dentro il mio orecchio. In ufficio idem. La tecnologia ho capito, è bella ma è un'escalation. Perché una volta che ci hai l'iPod, lo vuoi ascoltare sempre, e allora, l'autoradio, quella che c'hai da sempre e che ti ha fatto sempre ascoltare onestamente la radio e i cd adesso non ti basta più. Adesso ci voglio ascoltare l'iPod. Ci voglio ascoltare la mia musica. Ci voglio ascoltare i racconti di mezzanotte del terzo radiofonico, alle sette del mattino. Insomma, ci voglio ascoltare quello che mi pare. In una parola: Podcast.
Sono sempre stato bravo a stullichiare, anche senza il box.
Dodici giorni. Dal 27 dicembre al 7 gennaio. Ieri, sabato 5, altra tappa. Abbiamo comprato la macchina nuova. Ma no una macchinicchia nica nica, piccola piccola, la macchinona. La station wagon, che nel bagagliaio mi ci posso stinnicchiare per lungo. Dopo una vita di macchine piccole, che quando devi trasportare una sedia al ritorno dall'Ikea ti ritrovi la gamba puntata dietro la nuca tipo pistola e devi guidare tutto a sgimbescio, tutto storto, io nella macchina nuova, di sedie ce ne voglio mettere quattro senza neanche abbassare i sedili posteriori. Poi, con rispetto parlando, che minchia devo farci con quattro sedie nel bagagliaio non lo so, ma intanto ce le metto solo per il prio di vedercele dentro, per il piacere di vederle tutte dentro il bagagliaio. Quando ero piccolo, la mamma aveva una 126. Il bagagliaio praticamente era grande quanto il mio zaino. Però quando andavamo a mare, mia madre ci faceva stare pure l'ombrellone. Ma come faceva mamma, non l'ho mai capito. Adesso abbiamo 2 macchine. Indipendenza. Perché onestamente non ne possiamo più di fare tutti gli incastri che manco a tetris. "Allora io domani vado con il treno, così tu puoi andare dal dottore, mentre dopodomani devo prenderla perché devo andare dal cliente e con la moto aggigghio di freddo, muoio dal freddo". Manco Scipione e Giulio Cesare facevano tanta strategia. Un'altra tappa. Un altro punto per alleviare la vita. Non è stato facile ottenere quello che ci spettava, ma ce l'abbiamo fatta e questa è un'altra di quelle piccole (piccole per modo di dire) cose che sanciscono, nel bene o nel male, la fine del capitolo abbile e mala vita. La radio della macchina nuova ci ha pure l'ingresso per l'iPod. Ce la consegnano sabato prossimo.
Domenica sera Lorenzo fa finta di avere una piccola stella tra le mani. Viene da me: voleva che appendessi la sua stella immaginaria nel cielo.
"Io sono picco (piccolo) papà, appendi tu" mi fa.
"Ma neanche io arrivo al cielo, amore" rispondo distrattamente.
"E allora tu prendi scala papà e appendi la mia stella"
"Va bene. Allora tu mettila nel vaso e stanotte, mentre dormi, papà prende la scala e l'appende per te, va bene?"
"Siiiiii" dice, e va via contento dopo aver messo la stella nel vaso.
Quella notte qualcuno per me ha appeso la sua stella nel celo, senza la scala.
Lunedì mattina mia moglie mi chiama in lacrime e io capisco subito.
"E' morto il nonno, vero?" chiedo
"Si" mi dice, tra un singhiozzo e un altro.
"Piangi e sfogati. E' l'unico modo" tanto Lorenzo è all'asilo, che per fortuna ha riaperto i battenti dopo la pausa festiva. Il nonno era il suo, ma lo sentivo anche un po il mio.
Ieri sera ho prenotato i biglietti per lei, i suoi genitori e sua cugina. Ho incastrato tutti i voli affinché possano volare sempre assieme, tra andate e ritorni. Lunghi o in giornata per il funerale. Ho prenotato le auto. Ma io ai funerali non ci vado mai. Se uno è morto, basta saperlo. Non è che devo vederlo stinnicchiato per capirlo. E a sentire il parrino che predica, io non ci ho voglia. Io i cristiani, gli uomini, me li voglio ricordare tutti all'aggritta, in piedi.
Lorenzo è andato a dormire a casa del suo cuginetto Salvatore, Sasà, che noi dovevamo alzarci prima dell'alba del Signore.

"Ciao casa, io vado dormire a casa di Sasà"
Lui saluta sempre i luoghi: il carrefour, le giostre, il lago, la casa. Come se avessero anche loro un'anima. Ma forse ce l'hanno per davvero. Ha ragione lui. Penso. I bambini hanno sempre ragione. Quasi.
Stamattina mi sono alzato alle 3,30 per accompagnare mia moglie e mia suocera a Linate. Alle 5,30 ero già in ufficio. Parcheggio, spengo la macchina. Infilo l'iPod nelle orecchie. Mi guardo intorno. La barbona di via Monte Bianco sta dormendo dentro la sua tenda. Apro il portatile e inizio a scrivere. Di getto. Mi accorgo che è già mattino quando la luce dell'alba illumina finalmente la tastiera del portatile. La barbona accanto a me, che nel frattempo è uscita allo scoperto dalla sua tana cittadina, sta comodamente defecando sul marciapiede, di fronte la vetrina di una Banca. Sulla vetrina della banca. Bhè, mi dico, non poteva trovare luogo migliore per farlo. Lo scrivere si è fatto più tenue. L'ordine è stato ristabilito. Ascisse e ordinate. Trama e ordito. Posso riporre gli attrezzi nella cassetta e guardare scorrere nuovamente il mio presente.

[Foto: Trey Ratcliff - "The Open Road" - www.stuckincustoms.com. Released on Creative Commons License.]

domenica 27 gennaio 2008

27 Gennaio 1945

Oggi ho solo voglia di non dimenticare.
Non dimenticare l'abominio della mente umana.
Oggi tra i miei tatuaggi, immagino un numero sul braccio sinistro, che pulsa, che grida di dolore e rabbia.
Oggi indosso un triangolo rosa, marrone, rosso, nero, indaco. Una stella di David gialla è appuntata sul mio petto.
Ma l'uomo non impara dai propri errori. E oggi come allora, assistiamo inermi ad altri campi. Appuntiamo mentalmente altri triangoli al petto di altri fratelli, di altre sorelle. Commemoriamo gli esseri (non mi viene altro termine) che promulgarono le leggi razziali definendoli statisti.
Figlio mio, quando sarai grande ti racconterò quello che appartenenti alla la tua, alla mia, la nostra razza fecero tanti anni fa. Te lo racconterò per aiutarti a capire e a fare le giuste scelte. Per aiutarti a capire che l'odio non porta mai a nulla, che tutti gli uomini sono, devono essere gli stessi ai tuoi occhi. E se tu lo capirai, io mi sentirò sollevato perché tu, figlio mio, non apparterrai a loro, le uniche persone che occorre davvero odiare.

« Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. »

(Elie Wiesel, tratto da La notte. Wiesel fu rinchiuso ad Auschwitz all'età di 16 anni)

sabato 12 gennaio 2008

Un uomo sbronzo

Si, lo ammetto. Mi piacciono i vizi. Tutti.
Sono come le fragole su una buona torta al cioccolato. Certo, la torta sarebbe buona già di per se, ma volete mettere la sensazione di sublime appagamento che si prova aggiungendo al caldo e soave gusto del cioccolato il suadente sapore di una fragola rossa e ben matura? I vizi sono la parte buona della vita. Il dolce alla fine del pasto. Quando si va al ristorante, si ordina il primo o il secondo per fame. Che il primo sia una eccellente carbonara, dei maccheroni al sugo di pajata o un meraviglioso piatto di pasta con le sarde, che il secondo sia una invitante bistecca o un flan di verdure al formaggio, il primo e il secondo piatto vengono ordinati in base al livello di appetito presente al momento dell'ordinazione. E' per questo che non si dovrebbe mai fare la spesa quando si ha fame. Si finisce con il carrello pieno di golosità che poco hanno a che fare con le reali necessità giornaliere. Ma il dolce no. Il dolce viene ordinato sempre al termine del pasto. E' il vero peccato di gola. Ammettiamolo: quando ordiniamo il dolce, la fame è già state appagata alla fine del secondo, ma quando il cameriere inizia ad elencare la lista delle prelibatezze presenti, non riusciamo a resistere: dobbiamo avere quella porzione di tarte tain calda alle mele, quella cocotte di crema catalana, quella fetta di torta al cioccolato. Per questo i dolci devono essere curati con maggiore attenzione rispetto ai piatti di portata: essi rappresentano la nostra intenzione di peccare e pertanto devono esaudirci in tutto: vista, olfatto, gusto. I vizi sono la nostra torta al cioccolato a fine pasto. La nostra fragola su una torta già perfetta.
Si, lo ammetto. Io adoro i vizi. Tutti.
I vizi sono la componente che consente alla vita di essere meno scialba: una sigaro alla fine di un buon pasto, un buon bicchiere di cognac o di whiskey sorseggiato in compagnia di amici o della persona con la quale si divide, bene o male, la nostra esistenza; una bella notte di sesso senza freni, senza false inibizioni dettate da una società bigotta o falsamente moralista. Ma per vizi non intendo i sette fottuti vizi capitali o chissà quali altre stronzate inventate dai preti. No, non mi riferisco all'invidia, all'accidia, all'avarizia. Quelli non sono vizi. Sono componenti dell'esse umano. Dell'essere umano stronzo. Un avaro non potrà mai conoscere il bello dello spendere dei soldi senza un motivo. Non capirà mai il bello della condivisione, del gusto perverso che c'è nello spendere soldi per un paio di scarpe, per un oggetto che non serve ma indiscutibilmente ci piace. L'invidioso non saprà mai cosa si è perso, intento com'era ad invidiare la vita degli atri. L'accidioso non capirà mai il bello del donarsi agli altri. No. Quando parlo di vizi non mi riferisco a quello. Mi riferisco al peccato nel sua accezione più alta. Il vizio è prendere il bello delle cose. Pretenderlo. Assaporare il gusto della vita, esaltandolo. Il gusto di un buon bicchiere di Gewürztraminer con un piatto di uova agli asparagi, di un panino al tonno e pomodoro dopo una bella scopata assieme con la persona che ami. Di una canna in riva al mare con gli amici. Diciamolo chiaramente: i virtuosi non hanno mai capito un cazzo. Quelli che "io non bevo perché è sbagliato", quelli che "io non mangio carne", quelli che "io faccio sport e conduco una vita sana " non sanno cosa si stanno perdendo.
Si, lo ammetto, io vado pazzo per i vizi.
Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con essi. Da giovane stavano quasi diventando un problema. L'alcool ad esempio stava diventando una necessità che mi spingeva a chiederne sempre di più. E' quello il solo problema con i vizi: sono belli. E come ogni cosa bella ne vuoi sempre di più, sempre di più, fin quando ti accorgi di non poterne più fare a meno. Per me, tanti anni or sono, è stato così. Mi sono accorto che una bottiglia a settimana di JD era troppo e prima ancora, che non riuscivo ad uscire dalla mia branda se non davo un sorso alla mia fiaschetta di metallo contenente gin: ultima cosa che baciavo prima di dormire. La prima che salutavo al mattino, prima di infilarla nella tasca della mimetica. Ero incorso nel peggiore degli errori: trasformare la beltà di un vizio in un'abitudine e io amo troppo i vizi per trasformarli in un'abitudine. Il bello è anche sapere quando fermarsi. E io mi sono fermato in tempo, tanto tempo fa. Da solo. Ma ogni tanto... come stanotte, quando sai di potertelo permettere, è bello arrivare al quarto (o quinto ?) bicchiere di JD, attinto da quella bottiglia impolverata nella credenza. E' bello sedersi al pc e fare ciò che ti piace: senza scadenze, senza pressioni. Scrivere con la testa leggera, come se in questo istante ci fossi solo io. Anche se le dita non rispondono ai comandi imposti dal cervello e devo spingere il tasto backspace ad ogni parola perché so di aver scritto chissà quale astrusa serie di lettere al posto della parola che volevo scrivere. Sapersi fermare al livello in cui tutta la stanza ti gira intorno ma riesci ancora a formulare un pensiero, mentre tutti dormono, quando i tuoi doveri si sono esauriti. Quando la tua compagna dorme assieme a tuo figlio. Quando per una notte, dopo chissà quanto tempo passato ad essere un uomo responsabile, un marito, un padre, torni ad essere solo un uomo. Soltanto un uomo sbronzo davanti alla tastiera.
Si, lo ammetto. Io adoro i vizi. Tutti.

domenica 6 gennaio 2008

E anche la vecchia stronza è volata via...

Ebbene si, alla fine me la sono cavata. Anzi. Devo ammettere che quest'anno siamo stati proprio bravi. Chiudendo sapientemente le frontiere di quel piccolo stato che considero la mia casa, abbiamo limitato i summit festaioli allo stretto indispensabile, riuscendo ad evadere le feste incolumi.
La piccola peste ha scartato i suoi regali la mattina di natale come pregustavo da tempo, ma solo dopo aver fatto colazione tutti assieme con il cuore colmo di gioia e la bocca impastata. Qualche giorno dopo, anche lo scoccare della mezzanotte è passato per noi nel migliore dei modi: la mia compagna di vita si stava concedendo una doccia rilassante mentre io giocavo al pc e il piccolo guerriero dormiva beato nel suo lettino. Il nuovo anno è così entrato nella più totale indifferenza nella nostra casa, mentre il cielo era un tripudio di luci che riportava la mia mente ad altre notti passate ad altre latitudini, dove il cielo era illuminato in maniera similare ma erano altri fuochi a tracciare le scie.
Ogni fine anno è tempo di bilanci e per me che sono un ritardatario cronico, il bilancio cade per la befana. Strano anno quello appena trascorso. Per alcuni versi è stato il peggiore che abbia mai passato, con momenti in cui l'inferno in confronto sarebbe stato per noi il giardino dell'eden. Per altri è stato un buon anno, dove il nostro lavoro è stato ricompensato come doveva. Non voglio ricordare niente, voglio solo alzare il volume dell'iPod nuovo fiammante (regalo della mia compagna) che ho adottato ed ascoltare in silenzio l'odore di quest'ultima notte di vacanza ...