martedì 10 novembre 2009

La bestemmia, il gatto e i veneti.

Ci sono giorni nei quali sento crescere dalle viscere una irresistibile voglia di bestemmiare e per bestemmiare non intendo l'utilizzo di locuzioni avverbiali quali "perdindirindina" o "poffarbacco", intendo proprio quella serie di volgari improperi rivolti verso quell'entità mistica e sovrannaturale comunemente chiamata Dio o Signore.
La cosa di per se sembra piuttosto facile ma purtroppo per una mente razionale e totalmente annullata dall'alcool e da qualche altra decina di vizi, non lo è.
Analizzando infatti l'etimologia della parola ateo possiamo notare che essa proviene dal greco atheos, ovvero l'unione della lettera α- "senza" e da θεός (theos) "dio", quindi letteralmente un ateo è una persona che ha deciso di non ammettere una entità superiore nella propria vita.
Di fatto razionalmente è la stessa rinuncia ad una qualcosa ad ammetterne implicitamente l'esistenza, perché di contro rinunciare a qualcosa di inestistente risulterebbe un gioco lessicale o una metafora priva di ogni significato; un pò come rinunciare ad un grifone o ad un ippogrifo.
In altri termini un ateo è come quelle persone che decidono di vivere senza macchina: se loro hanno deciso di andare in giro a piedi è proprio perché ammettono l'esistenza delle automobili e per certi versi, le automobili esistono proprio grazie alla loro rinuncia.
Quindi nel mio caso se bestemmiassi in qualità di ateo creerei un paradosso tale per il quale non solo diverrei io stesso il creatore di dio, ma ne dovrei accettare subito dopo l'esistenza per poterne successivamente rinunciare in modo da poterlo così offendere impunemente.
Ora non è tanto il fatto di offendere pesantemente qualcuno di superiore che mi spaventa, quanto il fatto di poter divenire senza volerlo il creatore di Dio, il che per un ateo è una grossa responsabilità e sicuramente per un semplice sfogo non ne vale la pena.
Quindi ora, alla luce di quanto espresso in precedenza, non solo non posso ancora bestemmiare ma non posso neanche più definirmi un ateo, bella sfiga!
Ma ecco che il cappellaio matto che risiede nel mio cervello mi passa di sottobanco una buona carta da giocare: mi definirò agnostico!
Già agnostico... Non ci avevo pensato!
Il termine agnostico deriva dal greco a-gnothein che letteralmente significa "non sapere", indicando cioè quell'atteggiamento concettuale con cui si sospende il giudizio rispetto a un problema poiché non se ne ha (o non se ne può avere) sufficiente conoscenza o sufficienti prove sulle quali basarsi, il che di per se può anche andarmi bene.
Ovverosia: io sono convinto che non esista alcuna entità superiore, però razionalmente la mano sul fuoco non posso metterla perché sulla base dei concetti quantistici per i quali qualcosa esiste se esiste un osservatore esterno che possa certificarlo, per quanto ne sappiamo potremmo anche essere tutti gatti Schrödinger dentro una scatola chiamata universo.
Quindi in definitiva, non avendo sufficienti basi sulle quali affermare l'esistenza di una entità chiamata Dio, non posso bestemmiare neanche in qualità di agnostico.
Vaffanculo, a volte vorrei essere nato in Veneto e ingnorante.

mercoledì 23 settembre 2009

Anno XXXV, Vita V

Poche sono le cose da dire sul numero Trentacinque, a parte il fatto di essere il quinto numero pentagonale, che può essere scritto come somma di numeri primi dispari in 35 modi diversi e come somma di numeri primi in 35 x 5 modi diversi, che nella smorfia napoletana rappresenta l'uccellino e che indica il numero dei millimetri di larghezza della pellicola cinematografica.
Poco davvero eppure per me rappresenta tanto.
Nel corso dell'anno appena trascorso ho aggiunto una nuova vita al mio percorso, la quinta. Un nuovo figlio alla mia vita, il secondo e cosa non meno importante ho ritrovato la persona che per prima mi ha addomesticato, come direbbe il piccolo principe, più di vent'anni fa.
Ho dato per scontato tante, forse troppe cose per fretta, per volontà di rivalsa, di vittoria, di aiutare il prossimo, di aggiustare da solo il mondo.
Forse in parte ci sono riuscito, in parte no, ma come Atlante ho caricato troppo sulle mie spalle ed alla fine ne sono rimasto schiacciato dal peso.
Ho voglia di ricominciare, di intraprendere nuove strade, nuove abitudini. Di vedere il mondo con occhi ancora diversi. Ho voglia di guardare negli occhi la mia compagna di vita e perdermi in lei. Ho voglia di ridere del futuro con la mia piccola stella ritrovata. Ho voglia di vita.

[Chi non comprende che la vita è una ripresa,
e che in questo consiste tutta la bellezza della vita,
merita soltanto il destino che l'attende: perire.]
(S. Kierkegaard, "La ripresa", 1843)

giovedì 17 settembre 2009

Ogni volta

ogni volta che viene giorno
ogni volta che ritorno
ogni volta che cammino
e mi sembra di averti vicino
ogni volta che mi guardo intorno
ogni volta che non me ne accorgo
ogni volta che viene giorno

ogni volta che mi sveglio
ogni volta che mi sbaglio
ogni volta che sono sicuro
e ogni volta che mi sento solo
ogni volta che mi viene in mente
qualche cosa che non
c'entra niente ogni volta

ogni volta che non sono coerente
ogni volta che non e' importante
ogni volta che qualcuno
si preoccupa per me
ogni volta che non c'e'
proprio quando la stavo cercando
ogni volta ogni volta quando

ogni volta che non c'entro
ogni volta che non sono stato
ogni volta che non guardo
in faccia niente
e ogni volta che dopo piango
ogni volta che rimango
con la testa tra le mani
e rimando tutto a domani

[Ogni Volta, Vasco Rossi 1982]

lunedì 14 settembre 2009

27 Agosto 2009

L'altra notte ho fatto un sogno, cosa che già di per se mi ha stranito perché ormai di norma mi capita di sognare solo ad occhi aperti.
Nel sogno ero vecchio, anche se forse trattandosi di me stesso dovrei dire anziano.
Insomma ero vecchio e avevo una lunga coda di capelli bianchissimi tenuti insieme da un elastico, un paio di jeans vecchissimi e una camicia a quadri ovviamente fuori dai pantaloni.
Insomma, a parte qualche ruga e i capelli lunghi, per il resto ero io.
Ero seduto a farmi una tromba di ganja (n.d.r spinello) con mio nipote: un ragazzotto ben messo di circa sedici anni che mi somigliava abbastanza, su un vecchio divano di pelle marrone nel mio box. L'erba gatta l'avevo messa io, rollare aveva rollato lui perché a me, vista l'età, tremavano un po' le mani. Ed ero felice. Fatto e felice. E ridevo, come un ragazzino, parlando di politica e donne.
Ridevo tanto insieme a mio nipote, mentre quel carciofo passava di mano in mano, finquando la nonna (ovvero la mia compagna di vita) non ci ha scoperto e solennemente redarguito con frasi di circostanza del tipo "Mi meraviglio di te, non di lui! Quando siete assieme sei tu responsabile per lui, lo sai!", riferendosi ovviamente a mio nipote.
Per fortuna non appena il ragazzo fu andato via, dopo aver promesso alla nonna di non dire nulla al padre, anche lei si sedette sul divano a farsi un bell'assolo di tromba.
Insomma non so davvero come sarà il mio futuro, ma spero che più che un sogno, l'altra notte abbia avuto una premonizione, perché a vederlo così il mio futuro non era niente male.
L'unica cosa che del sogno non ricordo è di quale dei miei due figli fosse il figlio.
Come dite? Ah già, forse non ve l'ho detto, ma lo scorso 27 agosto alle 17.07 Manuele Mattia è entrato a far parte del nostro mondo e non so se per fortuna o meno, gli hanno assegnato d'ufficio questo papà. Per fortuna hanno rimediato assegnandogli come mamma la mia compagna.
Auguri Manuelito: io, Lore e Mamma ce la metteremo tutta per donare anche a te i giusti occhi affrontare questo mondo. In bocca al lupo!

P.S.
Ragazzi, fra qualche anno non incazzatevi troppo se vedete tornare a casa vostro figlio un po' allegro dopo essersi fatto una canna con il nonno.

lunedì 17 agosto 2009

E' da molto tempo che viaggia?

E quindi ero in quella stazione, mi capisci?
Quelle stazioni di passaggio, dove alla fine nessuno scende mai per vedere il paese, ma solo per prendere la fottuta coincidenza. Il paese attaccato a quelle stazioni potrebbe anche non esserci e nessuno se ne accorgerebbe mai, mi capisci? Le case che vedi dalla banchina del binario potrebbero essere benissimo di cartone, come le scene di un teatro. Dipinte. Chi vuoi che vada a controllare? Di quel posto tanto serve solo la stazione.
Insomma, ero in quella stazione a farmi i fatti miei aspettando il treno che mi avrebbe riportato a casa e all'improvviso questo vecchio mi si avvicina e attacca bottone e io penso che probabilmente parlerà di cazzate come fanno sempre i vecchi.
E invece cosa fa quel fottuto vecchio? Mi si avvicina e mi fa - è da molto tempo che viaggia?
Cioè capisci? Una domanda di quelle che non ti aspetti che un vecchio possa farti. Che ne so, mi sarei aspettato mi domandasse l'orario, una sigaretta, se secondo me l'indomani avesse piovuto o meno, e invece cosa mi domanda quel vecchio fottuto? Quel vecchio mi chiede l'unica cosa alla quale stavo pensando proprio in quel fottuto istante.
E io mi trovo li solo, capisci? Con la mia sigaretta tra le dita domandandomi che domanda fosse e senza accorgermene sento la mia voce rispondere - praticamente da tutta la vita.
Ma si può essere più stupidi dico io? Cioè un vecchio ti fa una domanda del cazzo e tu cosa fai? Rispondi pure a tono!
E allora questo vecchio si alza, capisci? Si alza, viene vicino a me, si siede accanto sulla panchina di marmo e mi guarda negli occhi. Non tanto eh? saranno stati all'incirca due o tre secondi al massimo. Si alza, mi guarda fisso negli occhi e poi mi fa - Deve volerle davvero bene.
Lo sapeva, capisci? Lo sapeva!
Non ho idea del come, ma lo sapeva!
A quel punto io mi volto di scatto e mi alzo, capisci? Cioè istinto, no? Cioè cosa avrei dovuto fare secondo te? Perché non poteva saperlo.
E allora mi alzo capisci? Mi alzo e lo guardo e devo aver avuto proprio un'espressione da ebete perché a quel punto lui sai cosa fa? Si alza anche lui dalla panchina di marmo, viene vicino a me e mi fa - Non abbia mai paura di viaggiare, non smetta mai di farlo.
E allora tipo mi sarò girato due secondi per cercare qualcosa da dire, no? Cioè sai quando guardi da qualche parte aspettando che ti arrivi la frase da dire, quella giusta.
Cazzo questo qui praticamente sa la mia vita ed io sto lì, zitto come un idiota a non dire nulla, capisci? Dovevo dire qualcosa, no? Qualcosa di intelligente e allora mi giro due secondi con la mia espressione da ebete, mi rivolto e lui? Era sparito.
Cioè non è che se n'era andato, era proprio sparito. E allora lo cerco con lo sguardo lungo la banchina, sui binari. Cerco quel suo vecchio e logoro cappellino giallo con la visiera e il suo zainetto verde acqua. Lo cerco dapertutto e niente. Non c'era più.
E allora sai che faccio? Tiro una boccata dalla mia sigaretta guardo l'orario e visto che avevo ancora più di un'ora prima che quella fottua coincidenza arrivasse, sai cosa faccio? Esco dalla stazione a vedere il paese.
E sai cosa scopro? Che il paese in quelle stazioni di passaggio, c'è. E non è finto o di cartone, esiste davvero, con persone vere che prendono il caffé, guidano le macchine e vivono la loro vita!
Ed è lì che ho capito che loro, loro che tutti consideravano comparse, avevano sempre vissuto molto più di me capisci?
E per la prima volta sereno davanti l'ingresso di quella fottuta stazione, mi sono ritrovato a guardare il mondo con il mio cappellino giallo in testa e il mio zainetto verde acqua sulle spalle.

giovedì 6 agosto 2009

Digressioni filosofiche a peso

Dio è la più grande invenzione dell'uomo dopo le sigarette.
Per correttezza anche sui portoni delle chiese dovrebbero mettere un cartello con su scritto "Nuoce gravemente alla salute".

venerdì 31 luglio 2009

L'essenziale è invisibile agli occhi

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "... piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi..."
"È vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
Poi soggiunse: "Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo".
E le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".
"L'essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.
"È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".
"È il tempo che ho perduto per la mia rosa..." sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..."
"Io sono responsabile della mia rosa..." ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

[Da Il piccolo Principe - Antoine de Saint-Exupéry, cap. XXI]

giovedì 23 luglio 2009

Che lavoro fai?

Il signor F. era un uomo normale e lo era fin da piccolo.
Il signor F. ogni mattina si alzava alle 06:30.
Doccia, dentifricio alla menta sullo spazzolino che cambiava regolarmente ogni mese, filo interdentale. Deodorante per le ascelle e due gocce di profumo sul collo, quindi passava alla vestizione.
Polo grigia con bande rosse sulle maniche e il logo della TOTAL sul petto, pantaloni grigi anch’essi con bande rosse laterali, scarpe antinfortunistica, berretto.
Il signor F. era un uomo normale e i suoi genitori erano fieri di lui, o almeno suo padre lo era. Sua madre era scomparsa qualche anno prima.
Non beveva e non fumava perché quelli erano vizi che solo gli scansafatiche potevano permettersi, come gli attori o i filosofi, non lui. L'intera economia del Paese poggiava sulle sue spalle e lui questo lo sapeva bene e di questo ne era orgoglioso.
Il signor F. aveva tirato su la sua stazione di servizio dal nulla, ed ora essa si ergeva maestosa nella campagna come una cattedrale nel deserto, dissetando le auto e i conducenti che si fermavano lungo la strada provinciale che dal suo paese portava al successivo.
Nella sua piccola Las Vegas ogni viandante poteva trovare oltre che benzina di ottima qualità, della quale effettuava personalmente il controllo ogni mattina, sigarette, chewingum, fazzoletti e ogni tipologia di deodorante e prodotto per la cura della propria vettura.
Si, a vederlo così realizzato il signor F. appariva agli occhi di tutti come un uomo davvero soddisfatto e in realtà lo era.
La sera, dopo aver chiuso la cassa e attivato la modalità self service, il signor F. chiudeva a chiave il suo ufficio: tre mandate in alto e due in basso, quindi prendeva la sua bella auto che provvedeva a spolverare ogni giorno tra un cliente ed un altro e tornava a casa.
Il signor F. non aveva una fidanzata ma d’altronde non ne sentiva neanche la necessità. Non che le occasioni non gli mancassero intendiamoci, un partito del genere faceva gola a molti padri giù in paese, ma come diceva lui non aveva ancora trovato una ragazza con la quale condividere il suo sogno.
Una bella casa, una bella moglie, due o tre figli, un cane in giardino. Un camper per fare le vacanze al mare. Tutti valori per i quali qualsiasi donna, ai suoi occhi, avrebbe dovuto far follie eppure il signor F. era solo. Tutte le sue fidanzate erano scappate con il solito figlio di buona donna scansafatiche senza arte né parte e lui ogni volta non riusciva a spiegarsi il perché. Semplicemente giustificava la fuga come un segno del destino: quella non era la donna giusta per lui, evidentemente.
Il signor F. era un gran lavoratore e questo tutti in paese lo sapevano e di questo lui era molto orgoglioso.
L’unica debolezza del signor F. erano i fumetti di dylan dog, per i quali nutriva una vera mania. L’acquisto di ciascun numero verso la fine del mese era un vero e proprio rito che si svolgeva secondo un preciso numero di azioni definite.
Innanzitutto la scelta dell’esemplare avveniva di mattina presto, ovvero non appena il giornalaio riceveva le copie dal fornitore. Il signor F. passava in rassegna tutte le copie scegliendo alla fine quella che presentava ai suoi occhi il minor numero di difetti. La distribuzione del colore di copertina doveva essere quanto più uniforme possibile, il dorso non doveva recare alcun segno di usura da sfregamento o altro, quindi il taglio delle pagine doveva essere regolare e secco.
L’apertura del volumetto per consentire la lettura delle pagine avveniva sempre con un angolo non superiore ai 38°, posizione ottimale affinché i bordi esterni della copertina non si lineassero.
Terminata la fase di lettura ciascun prezioso esemplare veniva prima inserito in una apposita busta e sigillato per preservare colori e carta dall’invecchiamento, quindi inserito in bell’ordine sullo scaffale della libreria dove avrebbe passato il resto dei suoi giorni in compagnia dei suoi simili.
Il signor F. era molto orgoglioso della sua collezione e anche lei lo era, perché quei volumi rappresentavano gli unici libri presenti in casa sua.
A volte, dopo aver visto la tv, il signor F. si soffermava sul balcone della sua bella casa a guardare le stelle. Gli piaceva pensare a quei puntolini luminosi come piccole pompe di benzina nel cielo, dove gli UFO potessero far rifornimento alle proprie astronavi. Ma il signor F. non era un sognatore e ogni volta, ricacciava dentro quelle stupidaggini scuotendo la testa, quindi andava in camera da letto, riponeva la divisa in ordine sulla sedia accanto al comodino, infilava il pigiama e dopo aver spento la luce, si addormentava.
Il signor F. non si poneva mai domande perché egli aveva già tutte le risposte.
Al signor F. non piaceva quando le donne lo fissavano dritto negli occhi: esse non avevano alcun diritto di farlo.
Di tanto in tanto il signor F. si concedeva una uscita con gli amici, per andare a divertirsi in qualche bar del centro e quando qualcuno gli chiedeva Che lavoro fai? Egli semplicemente rispondeva il benzinaio. Non aveva bisogno di parole inglesi per definire il suo lavoro come facevano gli amici di infanzia. Account Manger, Project Developer, Unit Reseller, Geometra. Lui era semplicemente il benzinaio e per questo tutti lo rispettavano, come il prete, il sindaco e il maresciallo della caserma.
Si, il signor F. era un uomo normale, la sua vita scorreva placida e odiava sua madre per tutte le botte che gli aveva dato da piccolo, per tutte le domande alle quali non aveva mai dato una risposta, per ogni boccone che aveva dovuto ingoiare controvoglia, per ogni volta che lo aveva pettinato con la riga sulla sinistra e lui avrebbe preferito sulla destra.
Il signor F. era un lavoratore, un uomo, un rispettabile membro della comunità ma quando la madre del signor F. scomparve, così, nel nulla, da un giorno all’altro, egli non versò nemmeno una lacrima.
La stessa sera in cui la madre del signor F. scomparve, il signor F. aveva personalmente effettuato la gettata di cemento per installare la nuova colonnina dell’aria compressa per il controllo dei pneumatici.
Il signor F. fissava ogni giorno quella colonnina e si sentiva orgoglioso di averla installata, nella sua stazione di servizio sulla strada provinciale che dal suo paese porta al successivo.

giovedì 16 luglio 2009

La mia strada

E ora la fine è vicina
E quindi affronto l'ultimo sipario
Amico mio, lo dirò chiaramente
Ti dico qual è la mia situazione, della quale sono certo

Ho vissuto una vita piena
Ho viaggiato su tutte le strade
Ma più. Molto più di questo
L'ho fatto a modo mio

Rimpianti, ne ho avuti qualcuno
Ma ancora, troppo pochi per citarli
Ho fatto quello che dovevo fare
Ho visto tutto senza risparmiarmi nulla

Ho programmato ogni percorso
Ogni passo attento lungo la strada
Ma più, molto più di questo
L'ho fatto a modo mio

Sì, ci sono state volte, sono sicuro lo hai saputo
Ho ingoiato più di quello che potessi masticare
Ma attraverso tutto questo, quando c'era un dubbio
Ho mangiato e poi sputato
Ho affrontato tutto e sono rimasto in piedi
L'ho fatto a modo mio

Ho amato, ho riso e pianto
Ho avuto le mie soddisfazioni, la mia dose di sconfitte
E allora, mentre le lacrime si fermano,
Trovo tutto molto divertente

A pensare che ho fatto tutto questo;
E se posso dirlo - non sotto tono
Oh No, oh non io.
L'ho fatto alla mia maniera

Cos'è un uomo, che cos'ha?
Se non se stesso , allora non ha niente
Per dire le cose che davvero sente
E non le parole di uno che si inginocchia
La storia mostra che le ho prese
E l'ho fatto a modo mio

--
Frank Sinatra - My Way (1969)
Scritta da: Paul Anka, Claude Francois, Gilles Thibault, Jacques Revaux

mercoledì 15 luglio 2009

V, 11 Luglio 2009

Ho pianto quella notte, come non avevo mai fatto prima, urlando il dolore per la mia morte.
Gridando la rabbia per la mia nascita, ho sbattuto i pugni contro il muro fino a far sanguinare le mani e con le lacrime ho lavato il mio corpo da tutte le mie vite passate, dai paradigmi, gli schemi, le falsità, i concetti astrusi.
Gli stessi occhi che mi hanno donato la morte, mi hanno donato la vita e condotto nel buio attraverso il vuoto.
Non ho più certezze a parte le poche rimaste. Quelle che avevo perso.
Sono un allievo desideroso di apprendere, perché tutto ciò in cui credevo è morto.
E mi sento vivo, come mai prima d'ora.
Ci siamo strappati a vicenda gli occhi, donandocene di nuovi.

A R. che con i suoi occhi mi ha fatto ricordare chi sono.
A P. che con il suo amore, mi ha reso libero.


venerdì 10 luglio 2009

Life...

Stai con me, amore mio, adesso. Domani. Sempre.
Stai con me, luce del mio mattino, affinché la tua luce possa illuminare la mia strada.
Stai con me buio della mia notte, affinché possa perdermi sempre nei tuoi occhi.
Stai con me amore mio, affinché possa avere ancora un'alba da guardare e un tramonto con cui chiudere gli occhi.
Donami sempre il tuo sorriso e non sarò mai più povero.
Disperdi le mie ceneri nella tua anima e vivrò per sempre.

lunedì 6 luglio 2009

Modì

Si adagia la sera
su tetti e lampioni
e sui vetri appannati dei bar
e il freddo ci mangia
la mente e le mani
e il colore dell'ambra dov'è?
ripensa alla luce
e al sole d'Italia
che Dante d'autunno cantò

che io sto vicino a te
e tu sai perché
stai vicino a me
questa notte e domani se puoi

ricordi via Roma
la luna rideva
lì ti ho scelto e voluto per me
mi guardavi e parlavi
dei volti tuoi strani
degli occhi a cui hai tolto l'età
e ora si scioglie la sera
nei pernod, nei caffè
nei ricordi che abbiamo di noi
per amore tradivi
per esister morivi
per trovarmi fuggivi fin qua
perché Livorno dà gloria
soltanto all'esilio
e ai morti la celebrità

ma io sto vicino a te
in silenzio accanto a te
stai vicino a me
questa notte e domani se puoi

questa notte e altre notti
verranno anche se
non sentiremo ancora cantar
ascolteremo la pioggia
bagnarci i colori
e mischiare i miei pensieri nei tuoi
ormai è l'alba e ho paura
di stare a restare
da sola a scordarmi di noi

e allora sto
vicino a te
anche se non vedi che
io son qui vicino a te
questa notte e domani
sarò...


Vinicio Capossela, Modì (1991)

venerdì 3 luglio 2009

Nel blu.

Sono qui, ci sono eppure non sono lo stesso.
La lunga assenza è stata solo l'effetto di un ovvio cambiamento che era in atto, anche se io non lo sapevo ancora.

Ho bisogno di trovare ancora altri occhi per guardare il mondo.
Ho bisogno di rinascere un'altra volta forse.

Devo capire, anche se non so dove andare o come.

Forse da oggi il cielo è un po' più blu come non lo era da quindici anni, forse è solo il tramonto di un'alba iniziata anni fa, forse è solo la quiete prima della tempesta.

Sono qui, pronto a ricominciare un'altra volta e questo per adesso mi basta.

sabato 11 aprile 2009

Il castello di carte

Ore 7.10 il cellulare sul comodino inizia a fischiettare twisted nerve, quella dell'infermiera di Kill Bill 1. Il dito automaticamente schiaccia il tasto posponi. Altri 5 minuti. Sono cintura nera dei 5 minuti.
Ore 7.20, altro fischietto, altri 5 minuti.
Ore 7.25, l'odiosa musica riprende a martellare i miei sensi di colpa: è ora di alzarsi.
Bagno.
Apro l'acqua della doccia per ottimizzare i tempi mentre espleto le funzioni fisiologiche.
Accendo la radio.
Entro nel box doccia.
Silenzio, solo il rumore dell'acqua che picchietta sui vetri.
Una nuovola di fumo avvolge tutto l'ambiente, apro la finestra e mi godo per un attimo la fresca aria del mattino mentre i vapori iniziano a defluire via.
Denti, capelli, gel, deodorante.
Due spruzzate di Acqua di Giò.
Scelgo la camicia, i pantaloni.
Giacca o maglia? Sportivo o elegante?
Un bacio alla mia compagna di vita, uno alla piccola peste.
Ore 7.58 mi dirigo verso la macchina assaporando la prima sigaretta della giornata.
Ore 8.02 sono in macchina. Radio 105 per il PBM fino alle 8.30, poi Radio Capital fino alle 9.00 per la rassegna stampa.
9.10 Bar dell'Ambrogina per il caffè e il cornetto con marmellata appena sfornato.
9.20 Giro verso la darsena, arrivo alla solita via, parcheggio.
Ore 9.25 seconda sigaretta nel traggitto posteggio - ufficio.
Ore 9.30 ufficio.

Tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, poco importa se sia inverno o primavera, estate o autunno: un susseguirsi sempre uguale di avvenimenti già prestabiliti scandisce il passare dei mesi e senza rendertene conto, ti accorgi che la neve ha ormai lasciato il posto alle margherite, ed il mondo continua ad andare avanti alimentando sempre più la spirale di odio ed intolleranza.
Eppure..., eppure quando senti avvenimenti come quelli occorsi nei giorni scorsi capisci quanto sei fortunato ad avere una casa ancora in piedi, una macchina senza cumuli di macerie per coperta, una famiglia. Capisci quanto è stato bello alzarsi e potersi fare una doccia calda, mettersi vestiti puliti, poter fare quei 30 km che ti separano dal tuo ufficio.
E tutti, come d'incanto, diventano buoni e fanno a gara per donare ed aiutare quelle povere persone rimaste senza nulla. Foto, libri, mobili, giocattoli, ricordi: tutto sepolto dalla polvere. Una polvere costruita ad arte da persone senza scrupoli che qualche anno prima avevano considerato un rischio accettabile mescolare sabbia marina al cemento al solo scopo di aumentare i guadagni. Le stesse persone che oggi, in un clima di buonismo generalizzato, invocano alla fatalità degli eventi e promettono una ricostruzione veloce, come quella degli anni precedenti. Ma la natura, come Dio, non gioca a dadi. La natura avverte sempre circa le sue intenzioni. A volte l'anticipo è di anni, a volte addirittura di secoli. A volte solo di qualche mese. Eppure noi, sempre sordi, continuiamo a non ascoltare e come in passato continuiamo a nasconderci dietro i numeri, le statistiche, le ragioni economiche. Nel frattempo i ghiacciai continuano a sciogliersi, il clima a diventare sempre più instabile e la terra a tremare.
E tu che in fondo sei rimasto un idealista, vorresti essere li a scavare con le mani, come i tuoi genitori hanno fatto prima di te in Irpinia, in Friuli, a Firenze. Vorresti davvero aiutare quelle persone perché la differenza tra te e loro è solo una manciata di chilometri.
I giorni passano e angeli dalle ali sporche si mescolano gli sciacalli, tutto rigorosamente in diretta nel nome dell'audience.
I giorni passano e tu continui a mandare i messaggini con il cellulare, a prometterti che il mese prossimo farai un'altra donazione, perché in fondo ci credi davvero che qualcosa alla fine, arriverà davvero.
Paole ipocrite vengono pronunciate da uomini immolati all'unico vero e unico dio conosciuto dall'essere umano: il potere.
E così altre promesse vengono fatte, altri uomini assicurano fiducia, ricostruzione, vita eterna, tutto nel nome di un Dio che con loro ha poco a che fare.
Si celebrano funerali utili ai vivi per trovare una scusa, per convincersi di aver onorato la morte, di averle dato la dignità che merita. Ma nella morte non vi è alcuna dignità. La dignità è un sentimento che appartiene soltanto alla vita. I morti avrebbero preferito continuare a studiare, ad accudire i figli, a lavorare, ad amare, ad odiare.
Ma l'unico modo di onorare davvero la morte è vivere per continuare ciò che ad altri è stato negato, brutalmente interrotto. Vivere pensando che in fondo, qui, sulla terra, siamo soltanto degli inquilini e se tutto può crollare da un momento all'altro, come un castello di carte, alle 3.32 di un giorno qualsiasi, tanto vale vivere bene, cercando di costruire qualcosa di buono, davvero.

[foto: Bryan Berg www.cardstacker.com]

venerdì 9 gennaio 2009

Può un solo fiocco di neve fare la differenza?

Avete mai visto un fiocco di neve? Uno vero intendo, di quelli a forma di stella che tutti credono esistano solo nelle vetrine di swaroski. E invece esistono davvero e a me è capitato di incontrarne uno il 29 dicembre scorso, per la prima volta. E' caduto nelle mie mani inguantate al mattino, mentre stavo aprendo la macchina per andare al lavoro. Con l'eleganza di un'etoile è sceso giù dal cielo danzando e roteando leggero senza far rumore, senza dar problemi, sciogliendosi subito dopo l'impatto con il suolo, come se un piccolo artigiano dopo averli confezionati uno per uno si stesse divertendo a buttarli giù solo per divertimento, solo per darmi il bentornato a casa.
Quattordici giorni prima avevamo preso l'aereo per Palermo: erano otto anni che non trascorrevo un natale con la mia famiglia ed era la prima volta che la mia piccola peste lo trascorreva con i nonni di giù, come li chiama lui.
In questi quattordici giorni di ferie dopo più di un anno e mezzo di lavoro a casa e in ufficio, ho visto mia madre sorridere come non la vedevo da anni e forse non l'avevo mai vista, ho visto la felicità negli occhi di mio fratello mentre, esercitando il suo ruolo di zio, alzava Lorenzo in aria. Ho visto la tenerezza di mia cognata mentre comprava un pigiamino per la peste, lo sguardo di un nonno, mio padre, felice di poter vedere il nipotino nel suo studio in carne ed ossa e non solo in fotografia.Ho visto gli occhi di mio figlio illuminarsi davanti al mio mare. Ho incontrato una delle donne più forti e belle che abbia mai incontrato (ma di questo, forse vi parlerò un'altra volta).
Quindi mio caro 2008, io non ti darò colpe. Non ti rimprovererò come hanno fatto tutti, al contrario, non posso che ringraziarti per quanto di buono hai portato nella nostra vita: una casa finalmente sistemata, una nuova macchina, delle buone soddisfazioni lavorative, il sorriso di mia madre, un fiocco di neve perfetto tra le mie mani, sotto casa mia, nel luogo dove per adesso mi piace vivere.